La registrazione di una conversazione all’insaputa dei colleghi è legittima, ma a solo precise condizioni

La registrazione di una conversazione all’insaputa dei colleghi è legittima, ma a solo precise condizioni

A cura di Filippo Salvo

Se l’art. 24 della Costituzione prevede che “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi” e che “la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”, da tale principio costituzionale si è fatta discendere l’idea che ogni atto teso ad acquisire prove utilizzabili in giudizio può essere di fatto legittimato.

Con riguardo al diritto di difesa del dipendente che registra una conversazione all’insaputa dei colleghi, tale diritto deve essere tuttavia bilanciato con la libertà della persona e il diritto alla protezione che l’Ordinamento assicura alla sfera privata e alla riservatezza delle comunicazioni.

In tale difficile bilanciamento, il punto di equilibrio tra i due diritti si rinviene nell’art. 24, lett. f, D.Lgs. n. 196/ 2003 (Cod. Privacy), il quale prevede la legittimità delle registrazioni effettuate all’insaputa dell’interlocutore per essere utilizzate nell’ambito di un procedimento giudiziario e, quindi, solo per tutelare o far valere un diritto e a condizione che i dati raccolti siano poi trattati esclusivamente per finalità di difesa e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (cfr. Cass., 20 settembre 2013, n. 21612).

In tale contesto normativo si inserisce la sentenza della Cassazione n. 28398 del 29 settembre 2022, qui in commento.

Nel giudicare la legittimità o meno di un licenziamento irrogato per giusta causa a una lavoratrice rea di aver segretamente registrato le conversazioni con i colleghi (la qual cosa per il datore di lavoro integrava una grave violazione del diritto alla riservatezza e giustificava quindi il licenziamento in tronco) la Suprema Corte ha esaminato i limiti di legittimità nell’acquisizione delle registrazioni di conversazioni tra colleghi sul luogo di lavoro.

Seguendo il proprio orientamento la Suprema Corte ha ritenuto che la registrazione di una conversazione tra presenti possa costituire fonte di prova entro i limiti e le condizioni specificamente individuate dalla legge (cfr. Cass., 10 maggio 2018, n. 11322). In linea, quindi, con il richiamato art. 24 Cod. Privacy che, come detto, permette di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per far valere o difendere un diritto.

Conseguentemente, con la sentenza in commento la Suprema Corte ha statuito che “… l’utilizzo a fini difensivi di registrazioni di colloqui tra il dipendente e i colleghi sul luogo di lavoro non necessita del consenso dei presenti, in ragione dell’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio …”.

È pertanto da considerarsi legittima – e quindi inidonea a configurare un illecito disciplinare – la condotta del lavoratore che abbia effettuato tali registrazioni per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda e per precostituirsi un mezzo di prova, rispondendo tale condotta, se pertinente alla tesi difensiva e non eccedente le sue finalità, alle necessità conseguenti al legittimo esercizio di un diritto (cfr. Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

Né per giudicare legittima la registrazione occorre attendere l’instaurazione del giudizio, avendo la stessa sentenza in commento ritenuto che “… questa Corte ha esplicitamente affermato che il diritto di difesa non è limitato alla pura e semplice sede processuale, estendendosi a tutte quelle attività dirette ad acquisire prove in essa utilizzabili, ancora prima che la controversia si stata formalmente instaurata mediante citazione o ricorso …”.

 Se questi sono i presupposti perché una registrazione occulta possa essere giudicata legittima, è evidente, per contro, che per pervenire ad un giudizio di legittimità il giudicante dovrà effettuare una valutazione delle circostanze del caso concreto, non essendo sufficiente la mera affermazione del lavoratore per cui le registrazioni effettuate all’insaputa dei colleghi sarebbero finalizzate all’esercizio del suo diritto di difesa. Occorre che la registrazione audio sia realmente strumentale alla tutela giurisdizionale di un diritto per quello che la Giurisprudenza ha definito “l’imprescindibile necessità di bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto dall’altra e pertanto di contemperare la norma sul consenso al trattamento dei dati con le formalità previste dal codice di procedura civile per la tutela dei diritti in giudizio” (Cass., 16 maggio 2018, n. 11999).

In ogni altro caso, dovrà, per contro, ritenersi violata la riservatezza se il lavoratore diffonde la conversazione per scopi diversi dalla tutela di un proprio diritto. Al di fuori di tali limiti, quindi, l’assunzione di registrazioni fonografiche all’insaputa dei conversanti integra una lesione dei requisiti minimi relativi al dovere di fedeltà di cui all’art. 2105 cod. civ. e costituisce, dunque, una condotta idonea a ledere irreparabilmente il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore.

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