A cura di Rebecca Pala
Un salario competitivo pare non essere più sufficiente. Sempre più aziende stanno promuovendo progetti che valorizzino – più o meno intensamente – il cosiddetto work-balance, o per dirla con termini più romantici, l’armonia tra la vita privata e quella lavorativa.
In questo contesto innovativo si inserisce una proposta – probabilmente la più desiderata, sicuramente la più discussa – la settimana corta. Non è certamente una realtà, però i progetti pilota nei vari Paesi non mancano e in Italia, quanto meno, se ne parla.
Da tempo infatti molte aziende si stanno scontrando con un epocale cambiamento – ora diventato in molte realtà strutturale – connesso all’allentamento del vincolo spazio – temporale della prestazione lavorativa, tradizionalmente elemento fondamentale del lavoro subordinato. Questa nuova vita dell’attività lavorativa ha certamente avuto inizio con il progresso tecnologico, ma ha conosciuto una incredibile diffusione – peraltro senza alternative – con l’avvento della pandemia.
Ora, proprio nel momento in cui la pandemia sembra aver concesso una tregua, sembra impensabile rinunciare al work-balance, che certamente in moltissimi nel mondo hanno sperimentato.
Il principio di work-life balance indica il livello di integrazione tra vita privata e professionale ed ha oggi un riconoscimento a livello comunitario. Dando rilievo infatti ai numerosi cambiamenti economico-sociali, a cui abbiamo assistito nell’ultimo decennio – il crollo demografico, la crescita della speranza di vita, il riconoscimento di diversi tipi di famiglia, l’aumento della disoccupazione – il Parlamento Europeo ha approvato nel 2016 una risoluzione, denominata “Creazione di condizioni del mercato del lavoro favorevoli all’equilibrio tra vita privata e vita professionale”, stabilendo il diritto fondamentale di tutti alla promozione di un equilibrio tra vita privata e lavorativa, richiedendo quindi agli Stati membri di provvedere all’elaborazione di politiche con particolare riferimento alla materia giuslavoristica.
Suddetto principio, ormai ben radicato, ha avuto tra le varie conseguenze l’aumento considerevole delle dimissioni, un fenomeno di massa che ha avuto particolare riscontro tra i giovani, i quali sembrano orientati a ricercare un posto di lavoro che consenta non solo una retribuzione appropriata, ma che dia giusto spazio alla vita sociale di ciascuno, fuori dalle aziende e lontano da logiche di lavoro tossiche.
Particolare attenzione merita anche l’ultimo stadio evolutivo del fenomeno della “Great Resignation”, ossia il “quite quitting”, secondo cui soprattutto i giovani tendono a svolgere il minimo indispensabile per adempiere alla prestazione e altri obblighi per i quali sono stati assunti, senza essere disposti a concedere ore di straordinari o incarichi che si dilunghino oltre l’orario di lavoro, contrattualmente definito. Ora, agli occhi di qualcuno potrebbe sembrare l’ultima scorciatoia di una generazione “choosy”. Invece, negli Stati Uniti – da cui il processo ha preso avvio – il fenomeno è percepito come la più recente manifestazione di contrasto alla cultura della competizione a tutti costi contro gli altri e se stessi. In ogni caso il dato di fatto, non più trascurabile, è certamente uno: conciliare la vita lavorativa e tutto il resto è la priorità, funzionale alla serenità e al benessere psico-fisico.
Così i datori hanno iniziato a dare spazio a espedienti che sempre di più si avviino verso l’obiettivo di ricercare un equilibrio nella vita di tutti i giorni, che bilanci il tempo dedicato al lavoro e quello nel quale si possa dare spazio alla famiglia, alla salute, alla cultura, insomma alla vita sociale, intesa in senso ampio.
In primo luogo si è assistito ad un incremento delle più svariate misure di welfare, ora è il momento di una grande implementazione della prestazione resa in modalità smart-working.
La misura che più di tutte sembra essere accattivante è la settimana corta di lavoro. L’obiettivo dichiarato peraltro va ben oltre il superamento della rigidità dell’orario di lavoro, ma consiste anche nell’incremento della produttività delle aziende. Per avere contezza della situazione attuale si riportano alcuni esempi di paesi che si stanno mettendo alla prova con la settimana di lavoro breve. Tra gli Sati che hanno per primi sperimentato la settimana corta troviamo la Nuova Zelanda e l’Islanda; a queste si sono aggiunte poi singole realtà aziendali nei vari Paesi nel mondo.
Quanto all’Europa il partito nazionalista scozzese ha infatti modulato un progetto di riduzione dell’orario lavorativo del 20% senza ricadute negative sulla retribuzione. Anche la Spagna ha annunciato la riduzione a 32 ore senza tagli allo stipendio.
Uno degli ultimi Paesi in ordine di tempo è il Belgio, nel quale la proposta di settimana corta si articola nei seguenti termini. L’iniziativa si incentra sulla richiesta da parte del lavoratore al datore di comprimere l’orario di lavoro settimanale – 38 ore secondo la legge belga – in quattro giorni, invece di cinque, senza decurtazione della retribuzione. Il datore di lavoro potrà quindi rifiutare suddetta istanza, solo in presenza di solide ragioni di carattere organizzativo, ragioni che peraltro potranno essere rimesse ad un controllo esterno da parte dell’autorità giudiziaria competente. Orbene è ben evidente che non siamo di fronte ad una vera e propria settimana corta, nella quale si avrebbe una riduzione dell’estensione dell’orario lavorativo, bensì ad una diversa distribuzione del medesimo in un numero inferiore di giornate.
Il progetto più interessante nonché con grande riscontro mediatico si sta verificando in Inghilterra. Infatti, sono ben 3000 le aziende che stanno sperimentando la settimana di lavoro breve, per un totale di settanta mila lavoratori coinvolti a partire da gennaio 2022. Il progetto inglese è sostenuto da una associazione indipendente e no-profit “4 Day Global Week”, la quale sostiene tra le conseguenze di suddetto esperimento, non solo i ben noti vantaggi per i lavoratori, ossia la conciliazione delle esigenze di vita privata e lavorativa, ma anche benefici per le aziende che si avvantaggerebbero di una riduzione dei costi, godendo di lavoratori più efficienti e performanti.
Arrivando al nostro Paese, è utile riportare alcuni dati. L’OCSE ha stilato nel 2021 una classifica che ordina gli Stati – partenendo da un campione dei 35 Paesi più sviluppati al mondo – in base alle ore lavorate; l’Italia si posiziona a metà circa: ebbene, sembra che in Italia ciascun soggetto occupato lavori circa un quinto del proprio tempo nell’arco di un anno. Quanto alla produttività, è noto a tutti che in Italia si lavoro molto, ma si produce poco; e non certo perché la popolazione è pigra, bensì a causa dei programmi tecnologici non particolarmente avanzati, della burocrazia ingente ed invadente nonché di una logica lavorativa, strettamente legata all’orario di lavoro e non alla qualità del medesimo.
In Italia “l’esperimento della settimana corta” è comparso nei programmi di alcuni partiti durante l’appena conclusa campagna elettorale. Ma una novità, dell’ultima ora, c’è: una della maggiori banche del Paese ha avviato una trattativa che rimoduli la settimana lavorativa in 36 ore di lavoro senza decurtazioni alla retribuzione. In realtà il tavolo al quale sono seduti la banche e le maggiori single sindacali ha come oggetto un globale ripensamento dell’orario di lavoro. La proposta datoriale è così articolata: la settimana di lavoro si comporrebbe di quattro giorni lavorativi da nove ore ciascuno e la scelta del giorno libero spetterebbe a ciascun dipendente in accordo con il proprio responsabile. È doveroso riconoscere che, nonostante le criticità del progetto – peraltro già avanzate dalle firme sindacale che aderiscono al tavolo di lavoro – il fatto stesso che la settimana corta di lavoro sia introdotta nel nostro Paese da una realtà societaria tanto ampia e solida non può che essere considerato come “apripista”.
I pro e i contro. Gli argomenti a sostegno non mancano, primo tra tutti è appunto il miglioramento del rapporto tra vita professionale e vita privata. Ma anche dal lato del datore, sembra potersi rilevare che un lavoratore – o meglio, un individuo socialmente appagato – meno stressato, sia più produttivo sul lavoro. Per citare altri temi, oggi non più trascurabili, l’introduzione della settimana breve di lavoro sembra possa avere un impatto positivo anche in relazione alla parità di genere, promuovendo una più equa distribuzione del carico connesso alla partecipazione alla vita famigliare.
Quanto alle ragioni a sfavore della misura alcune voci sostengono che la compressione dell’orario lavorativo non determini altro che un aggravamento dello stress psico-fisico del lavoratore, che risentirebbe appunto della pressione, esercitata dai superiori gerarchici, affinché la produttività prima, la redditività poi, non cali. Poi deve aggiungersi che nel caso in cui si ipotizzi una misura che non riduca corrispondentemente la retribuzione percepita, si avrebbe quale immediata conseguenza un aumento complessivo e sostanzioso del costo lavoro, dovendo peraltro un’impresa provvedere ad assumere più lavoratori, al fine di mantenere una certa soglia produttiva. È poi necessario confrontarsi con dato reale importante, la proposta della settimana breve non è applicabile in tutte le aziende, come nel caso delle attività che si articolano in turni o che hanno un contatto diretto con il pubblico non espletabile in modalità agile.
In conclusione l’esperimento richiede imprescindibilmente la valutazione di due fattori: la produttività e la gestione della pressione da parte dei lavoratori. I dati sino ad ora registrati sembrano incoraggianti, a tal punto che valga pena approfondire un progetto vero. Certo è che la messa a punto di un esperimento realmente funzionante e di valore richiede indubbiamente l’assistenza di una consulenza legale competente che, conosciuti i precedenti , tragga dai medesimi i vantaggi e migliori gli aspetti più critici, così da disegnare un progetto efficace, che soddisfi tanto il datore quanto i lavoratori.