A cura di Alice Testa
È legittimo il licenziamento del lavoratore nel caso in cui, sebbene la condotta extralavorativa del dipendente sia stata oggetto di patteggiamento in sede penale, venga comunque accertata la sua gravità e la sua idoneità a ledere gli interessi materiali e morali del datore di lavoro, compromettendo il vincolo fiduciario sotteso al rapporto. Questo il principio espresso dalla Cassazione con la recente Sentenza n. 13748 del 17 maggio 2024.
La vicenda portata all’attenzione della Suprema Corte riguardava un licenziamento intimato all’esito di un procedimento disciplinare in cui erano stati contestati al lavoratore i capi di imputazione formulati a suo carico nell’ambito di una indagine penale che lo aveva visto coinvolto nell’attività di formazione di referti medici falsi, attestanti patologie mai esistite o comunque più gravi di quelle effettive, al fine di ottenere il riconoscimento dell’invalidità civile.
Sia il Tribunale di primo grado che poi la Corte territoriale accertavano la legittimità del licenziamento, non solo sotto il profilo formale, ma anche sotto il profilo sostanziale, ritenendo potersi desumere la sussistenza della condotta addebitata al dipendente anche dalla sentenza di patteggiamento intervenuta in ambito penale. La sanzione espulsiva veniva inoltre valutata come proporzionata alla gravità della condotta.
Avverso la pronuncia della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione il lavoratore, lamentando la circostanza per cui la Corte territoriale avesse dato per accertato in sede penale la sussistenza della condotta senza dare però rilievo alla differenza tra sentenza di condanna e sentenza di patteggiamento, fondandosi quest’ultima su fatti che non erano stati provati, ma solamente dedotti come esistenti ai fini della responsabilità penale. Sotto altro e diverso profilo, il dipendente contestava poi la sussistenza della giusta causa e la proporzionalità della sanzione espulsiva, anche in considerazione del fatto che, in altri casi, a fronte di condotte identiche a quelle a lui contestate, erano state adottate misure sanzionatorie meno afflittive.
La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sui predetti motivi di ricorso, li ha ritenuti inammissibili, rilevando come parte ricorrente si fosse limitata ad opporre la propria valutazione, in punto di fatto, in merito alla reale consistenza della condotta e alla sua gravità rispetto all’accertamento fattuale cui era pervenuta la Corte territoriale. La Cassazione ha poi evidenziato come i giudici dell’appello avessero dato conto dell’intervenuto accertamento in sede penale dell’effettività della condotta contestata al dipendente e ciò in ragione del fatto che, pur a fronte di un’istanza di patteggiamento, il giudice è comunque pur sempre tenuto, ex art 129 cpv. c.p.p., a verificare l’eventuale sussistenza di elementi per un’assoluzione. Nel caso in esame, il GIP presso il Tribunale aveva anzi constatato in sentenza l’avvenuta acquisizione di concreti elementi di colpevolezza a carico del prevenuto per tutti i reati allo stesso contestati.
Peraltro, ha concluso la Corte, il lavoratore neppure aveva negato, in sede disciplinare, i fatti oggetto di contestazione e che avevano poi portato al suo licenziamento.
Per tali motivi il ricorso è stato quindi rigettato.