A cura di Filippo Salvo
Una lavoratrice, da poco madre di due gemelli, si era vista chiedere, con tono ironico, da un collega, peraltro alla presenza anche di altre persone, come mai fosse rimasta incinta essendo lei lesbica. La lavoratrice aveva denunciato la cosa al datore di lavoro, evidenziando «il fastidio e il disagio che tale conversazione le aveva procurato» e rivendicando quindi «il rispetto per la propria vita privata».
Preso atto, la datrice di lavoro aveva contestato al dipendente di aver tenuto un comportamento lesivo dei principi del Codice Etico aziendale e delle regole di civile convivenza, avendo pronunciato frasi sconvenienti ed offensive, ad alta voce e alla presenza di terze persone, nei confronti di una collega. All’esito del procedimento disciplinare il lavoratore veniva quindi licenziato per giusta causa.
Impugnato il licenziamento, il lavoratore, in sede di reclamo, aveva ottenuto dalla Corte d’Appello di Bologna una sentenza favorevole di condanna del datore di lavoro al pagamento di un importo pari a venti mensilità della sua retribuzione. La Corte aveva infatti ritenuto eccessiva e quindi sproporzionata la sanzione espulsiva per un comportamento qualificato come “inurbano”.
Con Ordinanza n. 7029 del 9 marzo 2023 la Cassazione, in riforma di quanto statuito dalla Corte territoriale bognese, ha ritenuto invece legittimo il licenziamento in esame.
Secondo i giudici di legittimità, ridurre il fatto accaduto ad un mero comportamento inurbano «non è conforme ai valori presenti nella realtà sociale ed ai principi dell’ordinamento; essa rimanda, infatti, ad un comportamento contrario soltanto alle regole della buona educazione e degli aspetti formali del vivere civile, laddove il contenuto delle espressioni usate, e le ulteriori circostanze di fatto nel quale il comportamento del dipendente deve essere contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale ed espressione di principi generali dell’ordinamento». Con un ragionamento molto più ampio, gli ermellini hanno quindi evidenziato come costituisca oramai «innegabile portato della evoluzione della società negli ultimi decenni la acquisizione della consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata alla persona». Venendo quindi al caso in esame, se questo è oggi il comune sentire non può quindi che censurarsi la decisione in commento, dovendosi – secondo la Suprema Corte – ritenere che «l’intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, non può … essere considerata secondo il modesto standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo». In tale contesto, la Cassazione non ha poi mancato di rimandare nella propria decisione anche al Decreto Legislativo n. 198/2006 (Codice delle Pari Opportunità tra uomo e donna), nel cui articolo 26, al primo comma, si prevede che «sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, avendo lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo». Giustamente tale previsione è stata ritenuta «specificamente rilevante» nel caso in esame, in quanto chiarisce la volontà del legislatore «di garantire una protezione specifica e differenziata … alla posizione di chi si trovi a subire nell’ambito del rapporto di lavoro comportamenti indesiderati per ragioni connesse al sesso». Il tutto, osserva sempre la Suprema Corte, senza contare che nel valutare la sussistenza o meno di una giusta causa di licenziamento non può non tenersi conto della generale esigenza di riservatezza su dati sensibili riferibili alla persona, tra cui proprio quello relativo all’orientamento sessuale.