Corriere Economia | Focus Studi Legali: 18/02/2019
Social Network e licenziamenti
Usi Facebook al lavoro? Rischi il posto (davvero)
Commento a cura dell’avv. Stefano Trifirò
Mancate assunzioni per avere pubblicato foto o commenti su Facebook, o licenziamenti perché le telecamere hanno ripreso immagini poi usate per avviare un procedimento disciplinare nei confronti del lavoratore: sono casi sempre più all’ordine del giorno. Lo studio legale Trifirò Partners, specializzato in diritto del lavoro, ha in particolare seguito due casi in cui l’uso delle tecnologie sul posto di lavoro ha avuto impatti sull’assunzione, lo svolgimento e la cessazione del rapporto di lavoro.
“Abbiamo seguito il caso di una dipendente, assente per malattia, che in realtà svolgeva altra attività lavorativa. La pratica è stata scoperta dalla società, perché la lavoratrice pubblicava regolarmente, anche una volta al giorno, sui propri profili pubblici social personali (Facebook e Instagram) annunci che pubblicizzavano eventi organizzati in locali pubblici, indicando anche il proprio numero di cellulare“, racconta Stefano Trifirò, partner dello studio.
A questo episodio, se ne aggiunge uno simile. Qui “un altro dipendente, anch’egli assente per malattia, aveva pubblicato sul proprio profilo pubblico di Instagram foto della propria persona, da cui emergeva la prova che in quel momento si trovava in una località diversa dal domicilio di reperibilità da lui comunicato all’azienda”.
In entrambi i casi, continua Trifirò “da un controllo da parte del datore di lavoro a computer del lavoratore emergeva un uso eccessivo dei social per uso personale, che nulla avevano a che fare con lo svolgimento delle sue mansioni“.
È dunque legittimo, per il giuslavorista, licenziare chi trascorre troppe ore a postare o dare like sui social. Lo scorso primo febbraio, la Cassazione ha confermato il licenziamento per giusta causa per una segretaria di Brescia che ha utilizzato Facebook durante l’orario di lavoro: 6 mila accessi a Internet, di cui 4.500 a Facebook in 18 mesi.
Violazione della privacy? “No, in questo caso, la Cassazione ha ritenuto che non ci fosse – dice Trifirò – perché il controllo si limitava a tutelare il patrimonio aziendale e ad evitare comportamenti illeciti da parte dei dipendenti. Inoltre non vi era la violazione della privacy, trattandosi di dati che vengono registrati da qualsiasi computer. Questa attività, poi, “non viola lo Statuto dei lavoratori perché non controlla la produttività ed efficienza dell’attività lavorativa, ma attiene a condotte estranee alla prestazione individuale“.