
A cura di Francesca Bonavina e Noemi Spoleti
L’art. 2110 del Codice Civile prescrive che, in caso di malattia (ma anche infortunio, gravidanza o puerperio), il lavoratore ha diritto ad assentarsi conservando il posto di lavoro, nei limiti del periodo di tolleranza, c.d. periodo di comporto, stabilito dalla legge, dal CCNL, dagli usi o secondo equità.
Lo stesso articolo 2110 Cod. Civ. prevede però, al secondo comma, che il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro rientra tra le ipotesi di libera recedibilità delle parti, per le quali l’art. 2118 Cod. Civ. prescrive solamente l’obbligo del preavviso, da calcolare secondo quanto disposto dal CCNL.
In altre parole, il lavoratore ha diritto a conservare il proprio posto di lavoro in caso di assenza per malattia fino a che il numero di assenze effettuate non superi il periodo di tolleranza determinato dalla contrattazione collettiva applicabile al rapporto di lavoro; in caso di superamento di detto periodo di tolleranza, il datore di lavoro potrà recedere liberamente dal rapporto.
La legge però nulla prevede per il caso in cui le numerose assenze effettuate dal lavoratore siano dovute ad una condizione di disabilità dello stesso e, pertanto, si pone il tema della computabilità delle assenze per malattia, riconducibili alla disabilità del prestatore di lavoro, nel periodo di conservazione del posto di lavoro.
L’eccezione viene spesso sollevata in giudizio dai lavoratori disabili che, in sede di impugnazione del licenziamento comminato per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 Cod. Civ., sostengono che l’applicazione del medesimo limite temporale previsto per i colleghi non affetti da disabilità costituisca una discriminazione indiretta nei loro confronti, poiché la disabilità li espone ad un potenziale maggior rischio di effettuare assenze per malattia. Per meglio comprendere la tesi sostenuta dai lavoratori, si deve, anzitutto, chiarire cosa si intenda per discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.
Nel diritto del lavoro, il riferimento normativo va ricercato nell’art. 2, lett. a) e b) del D. Lgs. n. 216/2003, che ha dato attuazione alla Dir. 2000/78/CE sulla «parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro» e che introduce i concetti di discriminazione diretta e indiretta.
Dall’analisi di tale normativa emerge che la discriminazione diretta si configura come un trattamento meno favorevole di un determinato soggetto rispetto ad altri soggetti, in situazioni analoghe, proprio in ragione delle sue condizioni personali (ad esempio, la disabilità); mentre, nel caso di discriminazione indiretta la disparità di trattamento è l’effetto di un atto, di un patto, di una disposizione o di un prassi in sé legittima, ovvero di un comportamento che è corretto in astratto ma che, in quanto destinato a produrre i suoi effetti nei confronti di un soggetto con determinate caratteristiche (nello specifico, portatore di disabilità) determina in concreto una situazione di disparità. Pertanto, ai sensi della Dir. 2000/78/CE, sussiste una discriminazione indiretta fondata sulla disabilità ogniqualvolta una disposizione apparentemente neutra e in sé legittima possa mettere in una posizione di particolare svantaggio il lavoratore disabile, a meno che: 1) tale disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che 2) il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare soluzioni ragionevoli, per ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione.
La questione è stata oggetto di un animato dibattito giurisprudenziale, in assenza di un orientamento di legittimità che si potesse definire consolidato sul punto.
Per quanto concerne le pronunce in ordine alla illegittimità del licenziamento intimato nei confronti del lavoratore appartenente alle categorie protette per superamento del periodo di comporto, si segnalano tra le decisioni più recenti che hanno ritenuto illegittima la sanzione espulsiva in ragione della discriminatorietà indiretta della stessa: Trib. Milano, ord. del 12 giugno 2019 e del 5 maggio 2022.
Tali pronunce, con dovizia di riferimenti alla normativa nazionale e comunitaria hanno ritenuto invero che “L’assunto della assoluta equiparabilità della condizione del lavoratore invalido con quella del lavoratore non disabile ma affetto da malattia e, quindi, della possibilità di applicare ai primi la medesima – indistinta – disciplina in materia di comporto è, con tutta evidenza, erroneo. Così operando, infatti, si regolano nel medesimo modo due situazioni radicalmente differenti, violando il principio di uguaglianza sostanziale e, prima ancora, dando luogo a una discriminazione indiretta. Tanto ai afferma in quanto i lavoratori affetti da una inabilità sono soggetti portatori di uno specifico fattore di rischio che ha quale ricaduta più tipica, connaturata alla condizione stessa di disabilità quella di determinare la necessità per il lavoratore sia di assentarsi più spesso per malattia sia di ricorrere, in via definitiva o per un protratto periodo di tempo, a cure specifiche e/o periodiche”. Per quanto riguarda, invece, le pronunce che hanno dichiarato legittimi i licenziamenti intimati ai lavoratori appartenenti alle categorie protette per superamento del periodo di comporto si segnala, in particolare, una sentenza del Tribunale di Vicenza del 26 aprile 2022, secondo la quale “in relazione allo scomputo dei giorni di malattia dovuti alla patologia dal calcolo del periodo di comporto, la nozione di disabilità non prevede una tutela assoluta in favore del soggetto disabile, dovendosi salvaguardare il bilanciamento degli interessi contrapposti del portatore di handicap e del datore di lavoro. Ne consegue la legittimità del licenziamento, per superamento del comporto, intimato al lavoratore disabile, ove sia accertata tanto l’assenza di responsabilità del datore, il quale abbia predisposto i necessari accomodamenti al lavoratore, quanto la negligenza di quest’ultimo per non avere neppure curato di comunicare tempestivamente quali, tra le assenze per malattia, fossero connesse con la propria disabilità”.
Si osserva che vi sono altresì pronunce, seppur sporadiche, della giurisprudenza di legittimità, con le quali la Corte, peraltro, ha sempre analizzato la questione in un’ottica di discriminazione diretta (cfr., ad esempio, Cass. n. 21377 del 2016). Con la recente pronuncia n. 9095 del 31 marzo 2023 la Corte di Cassazione sembra aver preso, invece, una posizione più netta rispetto al passato, recependo gli orientamenti della giurisprudenza comunitaria formatisi sul tema, che propendono per la qualificazione della fattispecie in termini di discriminazione indiretta. Nella specie, la suprema Corte, dopo aver richiamato la normativa e la giurisprudenza comunitaria sul concetto di discriminazione indiretta in ragione della disabilità (art. 2 lett. b della direttiva 2000/78/CE; sentenza 11 aprile 2013 in cause riunite C-335/11 e C337/11, HK Danmark; sentenza 18 gennaio 2018, in causa C-270/16, Carlos Enrique Ruiz Conejero) ha confermato la decisione di merito della Corte d’Appello di Milano, esprimendo il principio secondo cui l’applicazione al lavoratore disabile dell’ordinario periodo di comporto rappresenta una discriminazione indiretta. Ciò in ragione del fatto che il lavoratore disabile, rispetto ad un lavoratore non disabile, è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.
La Corte non disconosce l’esigenza di tutela del datore di lavoro, che ha certamente interesse a contrastare e combattere i fenomeni di assenteismo per eccessiva morbilità dei lavoratori, ma ritiene che tale finalità debba essere attuata con mezzi appropriati e proporzionati, ovverosia per mezzo dei c.d. ragionevoli accomodamenti, quali, ad esempio, l’adeguamento della postazione di lavoro con accorgimenti utili e funzionali alla richiesta; il superamento delle barriere architettoniche da attuare in ottemperanza con la normativa vigente; l’adozione di nuove tecnologie e modalità organizzative e lavorative, come quella del lavoro agile.
D’altro canto, secondo la Corte,“la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio apparentemente neutro del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”.
Il licenziamento comminato sulla base di tale unico termine di comporto va dunque qualificato come discriminazione indiretta, essendo a tal fine irrilevante, secondo la Suprema Corte, – stante la natura oggettiva dei divieti di discriminazione – che il datore di lavoro abbia o meno conoscenza della specifica malattia che ha dato luogo alla assenza. La discriminazione, infatti, opera in modo oggettivo, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, ed è irrilevante l’intento soggettivo dell’autore.
In conclusione, la sentenza appena analizzata, in assenza di implementazione da parte del datore di lavoro dei “ragionevoli accomodamenti” richiesti dalla normativa europea, rende inefficace l’applicazione della disciplina sui limiti massimi di conservazione del posto di lavoro a tutti quei lavoratori che siano sostanzialmente qualificabili come portatori di “handicap”.
Ed invero, la nozione di “handicap” di cui alla direttiva 2000/78/CE include “una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata, e che la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare non è determinante al fine di ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile a tale nozione”.