Jobs Act: lo “stato dell’arte” della giurisprudenza della Corte costituzionale. Dalla sentenza 194/2018 alla sentenza 44/2024

Jobs Act: lo “stato dell’arte” della giurisprudenza della Corte costituzionale. Dalla sentenza 194/2018 alla sentenza 44/2024

A cura di Claudio Ponari

La Corte costituzionale torna nuovamente ad esprimersi sulla disciplina dei licenziamenti a
distanza di nemmeno due mesi dalla nota sentenza del 22 febbraio 2024 n. 22, con la quale la
Consulta ha affermato l’illegittimità del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (cd. Jobs Act)
nella parte in cui detta normativa limitava la reintegra ai soli casi di nullità espressamente
previsti dalla legge.
Invero, la riforma del lavoro attuata con il c.d. Jobs Act continua ad essere oggetto di notevole
attenzione da parte del Giudice delle leggi.
Sin dalla pubblicazione di tale normativa la Consulta è stata chiamata in più occasioni ad
esprimersi sulla legittimità costituzionale della stessa e lo ha fatto sia intervenendo
direttamente con pronunce che hanno dichiarato l’incostituzionalità di specifiche disposizioni,
sia indirettamente, invitando il legislatore a intervenire su specifici aspetti anche paventando un
proprio intervento in caso di inerzia.
Andiamo con ordine: tra il 2018 ed oggi la Corte costituzionale si è pronunziata sul Jobs Act con
le sentenze di seguito indicate:
• la sentenza 194/2018 con la quale la Consulta ha giudicato che il risarcimento previsto in caso
di illegittimità del licenziamento non può essere proporzionato alla sola anzianità di servizio, ma
deve tenere in considerazione anche altri elementi, quali il numero dei dipendenti occupati, le
dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti;
• la sentenza 150/2020 che ha affermato un principio analogo anche con riferimento ai
licenziamenti viziati da vizi formali e procedurali nell’esigenza di attribuire «il doveroso rilievo al
fatto, in sé sempre traumatico, dell’espulsione del lavoratore»;
• la sentenza 254/2020 ha invece dichiarato inammissibile la questione di legittimità
costituzionale della previsione di un regime sanzionatorio diverso nell’ambito di un medesimo
licenziamento collettivo, tra assunti prima e dopo il marzo 2015 (i primi beneficiano della tutela
della reintegratoria, preclusa ai secondi). La Corte ha escluso la proponibilità dell’ eccezione di
incostituzionalità in base al rilievo che i rimedi idonei a garantire un’ adeguata compensazione
per il lavoratore arbitrariamente licenziato possono essere molteplici e ampio è il margine di
apprezzamento che spetta al legislatore;
• la sentenza 183/2022, pur dichiarando inammissibili le censure avanzate sull’indennità prevista
per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, contiene un monito al legislatore affinché
modifichi l’attuale normativa dal momento che “un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra
un minimo di tre ed un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla
specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace
deterrenza che concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”;
• la sentenza 7 /2024 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli
articoli 3, primo comma, e 10 del decreto legislativo attuativo del Jobs Act. La Consulta ha ritenuto
non fondata la censura inerente all’esclusione della reintegrazione per l’ipotesi di violazione
dei criteri di scelta, in quanto aderente al testo della legge delega (l. 183 del 2104) e,
nel contempo, ha, altresì, escluso la fondatezza della censura di violazione del principio
di eguaglianza, comparando i lavoratori “anziani” (quelli assunti fino al 7 marzo 2015),
che conservano la più favorevole disciplina precedente e, quindi, la reintegrazione nel posto di
lavoro, e i lavoratori “giovani” (quelli assunti dopo tale data), ai quali si applica la nuova
disciplina del Jobs Act;
• la sentenza 22/2024, ha statuito l’illegittimità costituzione dell’art. 2, primo comma, del
decreto 4 marzo 2015, n. 23 nella parte in cui limita la reintegra solo ai casi di nullità
espressamente previsti dalla legge. Secondo la Consulta la legge delega non intendeva porre
alcun distinguo tra nullità espresse e non espresse, prevedendo la tutela reintegratoria in tutti i
casi di “licenziamenti nulli”, al contrario invece il decreto delegato ha introdotto una distinzione
nell’ambito dei casi di nullità previsti dalla legge, differenziando secondo il carattere espresso o
meno della nullità. Inoltre, detta normativa prevedendo la tutela reintegratoria solo nei casi di
nullità espressa, ha lasciato prive di specifica disciplina le fattispecie “escluse”, ossia quelle di
licenziamenti nulli sì, per violazione di norme imperative, ma privi della espressa sanzione della
nullità, così dettando una disciplina incompleta e incoerente rispetto al disegno del legislatore
delegante. Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma in questione, consegue
che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata
ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che
risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti;
• la sentenza 44/2024, pubblicata il 19 marzo 2024, ha dichiarato non fondata la questione di
legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, d.lgs. n. 23/2015, che consente «l’attrazione
nell’ambito applicativo del regime delle tutele crescenti anche di lavoratori di piccole imprese, già
in servizio alla data del 7 marzo 2015, in concomitanza e in conseguenza di assunzioni aggiuntive
a tempo indeterminato, successive all’entrata in vigore dello stesso decreto, che abbiano
comportato il superamento dei limiti dimensionali previsti dall'art. 18, commi ottavo e nono,
statuto dei lavoratori».
La Corte ha escluso la fondatezza della censura di incostituzionalità sollevata dal Tribunale di
Lecce, giudicando coerente con la legge di delega la disciplina per i lavoratori che erano sì già in
servizio al 7 marzo 2015, ma che a quella data non beneficiavano della tutela reintegratoria
perché non era integrato il requisito occupazionale previsto dall’art. 18 e quindi ad essi trovava
applicazione solo la tutela indennitaria di cui alla legge n. 604 del 1966. In particolare la
Consulta ha ritenuto che il legislatore delegato, nell’esercizio del suo potere di completamento
del quadro della disciplina, poteva regolare anche la posizione dei dipendenti di piccole
aziende, per i quali non c’era un regime di tutela reintegratoria ex art. 18 da conservare, e ciò
poteva fare tenendo conto dello «scopo» della delega e del bilanciamento voluto dal legislatore
delegante (la non regressione della tutela reintegratoria di chi, essendo già in servizio, l’avesse
alla data dell’entrata in vigore della nuova disciplina).
Non è quindi violata la legge di delega e pertanto ai lavoratori di piccole imprese, assunti prima
dell’entrata in vigore del decreto legislativo, non si applica l’art. 18 statuto dei lavoratori,
bensì il regime di tutela del licenziamento individuale illegittimo, previsto per i contratti a tutela
crescente, nel caso in cui il datore di lavoro abbia superato la soglia dimensionale di quindici
lavoratori occupati nell’unità produttiva in conseguenza di assunzioni a tempo indeterminato
avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto stesso.
In definitiva, da questa disamina risulta evidente che il quadro normativo delineato dal Jobs Act
sia stato soggetto ad ampia revisione di costituzionalità e che potrebbero residuare ancora
margini per un intervento della Corte costituzionale relativamente alla regolamentazione della
misura dell’indennizzo spettante ai lavoratori illegittimamente licenziati nell’ambito della
piccola impresa, laddove il legislatore non colga le sollecitazioni del Giudice delle leggi.

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