A cura di Tiziano Feriani
È legittimo il licenziamento di una dipendente che – durante il periodo di congedo straordinario concessole, ai sensi dell’art. 42, comma 5, del D.Lgs. 26 marzo 2001 n. 151, al fine di consentirle di accudire la figlia portatrice di handicap in situazione di gravità – lavora nel negozio di proprietà del suo compagno.
Lo ha dichiarato la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza dell’8 luglio 2022 n. 21773, dopo aver accertato che, in ispecie, sussistevano gli estremi della giusta causa di recesso.
Nel caso di specie, poiché il compagno della donna – anch’egli dipendente della medesima azienda – era assente dal lavoro per pretesa malattia, la società sua datrice aveva incaricato un’agenzia investigativa di pedinarlo per verificare se la patologia da lui addotta fosse effettivamente esistente e, in caso affermativo, se il suo comportamento fosse idoneo a pregiudicarne o, quantomeno, ritardarne la guarigione e, quindi, il tempestivo rientro in servizio.
All’esito delle indagini, l’agenzia aveva fatto recapitare all’azienda una relazione investigativa, corredata da fotografie e filmati, da cui risultava in modo inequivoco che il lavoratore – nei giorni in cui era assente dal lavoro per asserita malattia – operava, in realtà, all’interno del negozio di cui era titolare, palesando, quantomeno all’apparenza, una condizione psico-fisica del tutto normale.
Peraltro, il responsabile della Società, una volta ricevuta la summenzionata relazione e il relativo materiale probatorio di supporto, aveva notato la presenza, nelle fotografie ad essa allegate, non solo del predetto lavoratore, ma anche di sua moglie.
Tenuto conto che quest’ultima, nello stesso periodo, era, a sua volta, assente dal lavoro, in quanto aveva chiesto ed ottenuto di fruire di un periodo di congedo straordinario allo scopo di assistere la figlia affetta da handicap grave, l’azienda aveva prontamente disposto un supplemento di indagine, per accertare se la presenza in negozio della donna fosse meramente sporadica ed occasionale, oppure costante e continuativa.
Avendo accertato che la stessa, pressoché quotidianamente, si tratteneva all’interno dell’esercizio commerciale del marito per gran parte della giornata e che tale suo comportamento non era compatibile con l’impegno da lei assunto di accudire la figlia disabile mediante la fruizione del congedo straordinario, il datore di lavoro aveva proceduto a licenziarla per giusta causa.
La dipendente aveva tempestivamente impugnato il suo licenziamento, ma il Giudice di primo grado aveva respinto il ricorso da lei proposto, ritenendo legittimo il recesso operato dalla società datrice di lavoro.
Avverso tale pronuncia, la lavoratrice aveva adito la Corte d’Appello di Bologna, la quale, tuttavia, aveva rigettato l’impugnazione, confermando integralmente la sentenza gravata.
Per tale ragione, la dipendente ha sottoposto il caso al Supremo Collegio, ma anche in sede di legittimità è risultata, ancora una volta, soccombente.
In proposito, la Corte di Cassazione – avendo considerato legittimo il ricorso, da parte dell’azienda, ad un’agenzia investigativa per controllare la condotta della lavoratrice – ha altresì ritenuto utilizzabile nei suoi confronti, ai fini probatori, il materiale fotografico e audiovisivo raccolto nel corso della medesima.
Come già evidenziato, da detto materiale era emerso che la donna, nelle giornate in cui era assente dal lavoro in virtù della fruizione di un congedo straordinario, anziché accudire la figlia disabile, aveva aiutato il marito all’interno del negozio di proprietà di quest’ultimo.
Del resto, tale fatto – pur contestato formalmente dalla lavoratrice – era stato, in ogni caso, ammesso, nella sostanza, dal suo legale, il quale aveva riconosciuto che la cliente aveva lavorato in detto negozio, seppur a titolo gratuito (circostanza, quest’ultima, peraltro, del tutto irrilevante).
Alla luce di quanto sopra, il Supremo Collegio ha affermato che la lavoratrice aveva abusato del congedo straordinario concessole esclusivamente al fine di assistere la figlia handicappata e che tale suo comportamento aveva leso in maniera irreparabile il necessario vincolo fiduciario posto alla base di ogni rapporto di lavoro, giustificando pienamente – e, quindi, rendendo legittimo – il recesso per giusta causa irrogatole dall’azienda.