A cura di Orazio Marano
Ulteriori oneri probatori, quanto al repêchage, in capo al datore di lavoro?
Con una sentenza (la n. 159 del 31 ottobre 2022), il Tribunale di Lecco ha affermato che l’obbligo di accertare l’impossibilità di reimpiego (c.d. repêchage) di un lavoratore, prima di disporne il licenziamento per ragioni organizzative (quindi per c.d. giustificato motivo oggettivo), va esteso sino alla verifica dell’impossibilità di riqualificazione professionale del dipendente, che il datore di lavoro potrebbe soddisfare con la partecipazione dell’interessato a corsi di formazione o con l’affiancamento dello stesso ad altri colleghi.
Quanto sopra, in ragione del fatto che il licenziamento costituisce un’extrema ratio e, quindi, per dimostrare l’inutilizzabilità del lavoratore in altre mansioni il datore di lavoro non può limitarsi a provare che non sono presenti in azienda posizioni alternative da assegnargli, ma deve anche dimostrare l’impossibilità o, quantomeno, l’antieconomicità di sottoporre il lavoratore ad un percorso di aggiornamento delle competenze professionali.
Trattasi di pronunzia che aderisce ad un minoritario (oltre che meno recente) orientamento giurisprudenziale (cfr. anche Trib. Roma 24 luglio 2017), secondo cui le modifiche normative apportate dall’art. 3 d.lgs. n. 81 del 2015 all’art. 2103 cod. civ. (in forza delle quali, adesso, è facoltà del datore di lavoro assegnare al dipendente – nel caso di riorganizzazione aziendale – mansioni diverse, anche di livello inferiore, se necessario accompagnando ciò dall’assolvimento dell’obbligo formativo) avrebbero introdotto – a carico del datore di lavoro – l’obbligo di procedere alla formazione del lavoratore necessaria per la riqualificazione, in quanto strumentale a consentire la mobilità “orizzontale” in fase di repêchage (tanto più che, secondo detto orientamento, tale obbligo accessorio – come sopra rilevato – sarebbe positivamente stabilito dal summenzionato art. 2103, comma 3, cod. civ., per il caso di mutamento delle mansioni, c.d. ius variandi).
D’altra parte, secondo il prevalente orientamento giurisprudenziale (recentemente ribadito dai giudici di legittimità ed in linea con quanto affermato, sul punto, prima della modifica sopra menzionata: cfr. Cass. 23 febbraio 2022, n. 5981; Cass. 3 dicembre 2019, n. 31520; Cass. 26 maggio 2017, n. 13379; Cass. 9 novembre 2016, n. 22798; Cass. 8 marzo 2016, n. 4509), l’obbligo di repêchage deve essere limitato alle ipotesi di disponibilità di posti di lavoro che non richiedano apposita formazione professionale: ciò, anzitutto, perché l’ordinamento non prevede un generale obbligo del datore di lavoro di procedere alla formazione e, poi, perché il nuovo art. 2103, comma 3, cod. civ. si applica unicamente allo ius variandi previsto nell’esclusivo interesse datoriale e non è quindi applicabile – in via analogica – all’ipotesi del reimpiego del lavoratore nell’ambito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Se così fosse, infatti, la modifica contrattuale (attinente al contenuto delle mansioni e alla relativa necessaria formazione professionale) sarebbe “subìta” dal datore di lavoro, con ciò imponendo a carico di quest’ultimo costi economici per detta formazione, incompatibili con le esigenze imprenditoriali (tanto più pesanti in contesti di riorganizzazione accompagnati dalla soppressione di posizioni di lavoro, per lo più determinata dalla necessità di ridurre le spese).
La questione interpretativa è di particolare interesse, perché porta a rimettere in discussione, in un’ottica di salvaguardia del posto di lavoro (e non senza “forzature”), il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui l’obbligo di repêchage in mansioni inferiori trova il limite nella modifica dell’organizzazione imprenditoriale, che è insindacabile; il che dovrebbe determinare un obbligo di ricollocazione del lavoratore che si intende licenziare non in tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo in quelle che siano compatibili con il bagaglio professionale dello stesso (cioè che non siano disomogenee e incoerenti con le sue skills) ovvero quelle che siano state effettivamente già svolte (contestualmente o in precedenza).
Per contro, il nuovo bilanciamento fra libertà d’impresa e stabilità del lavoro (prospettato dalla summenzionata sentenza del Tribunale di Lecco), fondato sull’obbligo formativo nella fase conflittuale del rapporto (che si aggiunge all’ancor più gravosa dimostrazione da parte del datore di lavoro – come richiesto da recenti pronunzie – di posizioni non “disponibili”, senza alcuna necessità della collaborazione del lavoratore nell’indicare quelle cui poter essere adibito), collide con le finalità legislative sottese alla nuova disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act nel marzo 2015, che non solo non ha modificato la “causale” del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ma ha anche introdotto una tutela esclusivamente economica per le ipotesi di licenziamenti ingiustificati.
Per queste ragioni, rimettere in discussione quanto affermato dalla prevalente giurisprudenza in materia di obbligo di repêchage e relativi limiti (appesantendo così, ancor di più, gli oneri probatori in capo al datore di lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano, tra cui in primis – dopo la pronunzia della Suprema Corte n. 33341 del 11 novembre 2022 – l’obbligo di reintegra nel caso di violazione dell’obbligo di repêchage per gli assunti in epoca anteriore al 7 marzo 2015), suscita – a parere di chi scrive – più di qualche perplessità.