A cura di Filippo Salvo
La legge 5 febbraio 1992 n. 104 riconosce al lavoratore subordinato la possibilità di fruire di permessi speciali per l’assistenza a congiunti con disabilità.
A fronte del diritto riconosciutogli ci si aspetterebbe dal lavoratore un comportamento eticamente ineccepibile, in primo luogo nei confronti di quel datore di lavoro che subisce le disfunzioni organizzative conseguenti ai suoi permessi.
Sempre più spesso si registrano, invece, casi di abuso da parte di dipendenti che fruiscono dei permessi in esame non per assistere il congiunto disabile, ma per finalità personali, ludiche, talvolta addirittura per svolgere altre attività lavorative, a danno del datore di lavoro, oltre che dell’INPS, ente erogatore della prestazione economica.
Tali illegittime condotte, ove scoperte dal datore di lavoro, sfociano, quasi sempre, nel licenziamento del dipendente e, in molti casi, nel giudizio di legittimità del licenziamento stesso da parte della giurisprudenza.
Con la recente Ordinanza n. 16973 del 25 maggio 2022, ad esempio, la Cassazione ha confermato la gravità di simili condotte, giudicando legittimo il licenziamento del lavoratore che aveva utilizzato i permessi della legge n. 104/92 per finalità private e non assistenziali, anche se solo per quattro ore e mezzo sulle trentadue complessivamente fruite.
Nello stesso senso si era pronunciata la Suprema Corte il 22 marzo 2016, con la Sentenza n. 5574, stigmatizzando la condotta del lavoratore che durante la fruizione dei permessi aveva dedicato solo una minima percentuale del tempo all’assistenza del congiunto malato (nella fattispecie il 17,5% del totale, una percentuale ritenuta insufficiente a giustificare un’attività assistenziale conforme alle finalità della legge istitutiva del permesso di cui il dipendente beneficiava). La Corte ha quindi ritenuto che con tale condotta il lavoratore avesse dimostrato “un sostanziale disinteresse per le esigenze aziendali”, violando il principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto di lavoro, “tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei successivi adempimenti e idoneo a giustificare il recesso per giusta causa”.
A fronte di simili pronunce, non mancano, tuttavia, casi in cui la giurisprudenza ha ritenuto l’abuso dei permessi in questione un fatto non sufficientemente grave da legittimare la sanzione espulsiva.
Basti del resto considerare che la stessa Cassazione sopra richiamata (16973/2022) ha riformato la sentenza di merito con cui la Corte d’Appello di Perugia, giudicando in modo opposto la medesima fattispecie, aveva ritenuto che la condotta, seppure disciplinarmente rilevante, non avesse connotati di gravita tali da far ritenere irrimediabilmente leso il vicolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente.
Pronunce di questo tenore non sono peraltro confinate alla giurisprudenza di merito, perché anche la Cassazione ha talvolta sminuito la portata degli abusi in esame e tratto le debite conseguenze sul licenziamento intimato.
Proprio recentemente, con Sentenza n. 13065 del 26 aprile 2022 la Suprema Corte ha ritenuto che andasse punita con una sanzione conservativa – e non con il licenziamento, come invece aveva ritenuto il datore di lavoro – la dipendente scoperta in vacanza, in un luogo di villeggiatura, durante un giorno di permesso preso per la cura della madre invalida. La lavoratrice si era giustificata sostenendo l’improvvisa indisponibilità della madre a raggiungerla, come concordato, presso la località di vacanza e giustificando poi il suo mancato rientro in azienda con il fatto che le proprie condizioni di salute non le avevano consentito di guidare di notte e per un lungo tragitto, a maggior ragione con l’intenso traffico che, a suo avviso, avrebbe certamente trovato quel giorno. E come anticipato, esaminati i fatti la Suprema Corte ha ritenuto che la condotta della lavoratrice sarebbe qualificabile non come un uso illegittimo del permesso, ma come assenza arbitraria di un giorno lavorativo, come tale punibile, secondo il CCNL applicato, con una sanzione conservativa.
Concludendo, la giurisprudenza non riesce, nemmeno in sede di legittimità, a trovare una sintesi e ad assumere una posizione netta e coerente su un aspetto così rilevante per la vita dei lavoratori e delle aziende, qual è quello dei permessi in esame. Ogni fattispecie è diversa e delle differenze il giudice deve giustamente tener conto, valutando nel concreto le ragioni che possono aver indirizzato la condotta del lavoratore in un senso o nell’altro. Nella valutazione complessiva dei fatti, tuttavia, non può prescindersi, come punto di partenza, dal fatto che l’uso illegittimo di un permesso ex l. n. 104/92 rappresenta, prima di tutto, l’abuso di un diritto, il venir meno del lavoratore ai principi di correttezza e buona fede che dovrebbero sottendere il rapporto di lavoro, oltre che un danno, organizzativo ed economico, arrecato al datore di lavoro e all’Ente che sopporta i costi di quel permesso mal utilizzato.