
A cura di Tiziano Feriani
Il lavoratore che svolge la sua attività in un ambiente stressogeno ha diritto al risarcimento del danno, indipendentemente dal fatto che lo stesso sia stato vittima di mobbing.
Lo ha affermato con ordinanza n. 29101 del 19 ottobre 2023 la Suprema Corte di Cassazione, cassando con rinvio la pronuncia con cui la Corte d’Appello di Roma aveva respinto la domanda risarcitoria formulata dal dipendente. Nella fattispecie in esame, un lavoratore aveva convenuto in giudizio la società datrice di lavoro, rivendicando l’inquadramento in una qualifica superiore, nonché lamentando che il proprio diretto responsabile aveva tenuto un comportamento mobbizzante nei suoi confronti e chiedendo, quindi, il risarcimento del danno alla salute da lui asseritamente subito.
In particolare, il dipendente aveva dichiarato di aver avuto un’accesa discussione con il proprio superiore gerarchico, allorché – in seguito a problemi di natura informatica – quest’ultimo, dopo aver preso il suo posto al computer da lui utilizzato, aveva cancellato dallo stesso alcuni file e, a fronte delle legittime rimostranze avanzate dal medesimo, si era rivolto nei suoi confronti in modo estremamente brusco e scortese, specificando che ciò gli aveva provocato un attacco ischemico, con conseguente necessità di immediato ricovero in ospedale. Al riguardo, la Corte d’Appello, pur avendo accertato in sede istruttoria che quanto riferito dal dipendente corrispondeva al vero, aveva tuttavia respinto la domanda risarcitoria da lui proposta, ritenendo che, nel caso di specie, non sussistessero gli estremi del mobbing dallo stesso lamentato, in quanto la condotta tenuta dal suo superiore gerarchico, seppur illecita, era consistita in un episodio isolato e non in fatti posti in essere in modo sistematico e ripetuto con finalità vessatoria e/o persecutoria.
Per contro, la Suprema Corte – nel cassare la pronuncia del Collegio romano – ha affermato che il Giudice non deve limitarsi ad esaminare la domanda avanzata dal lavoratore unicamente sulla base del tenore letterale dell’atto in cui la stessa è formulata, ma deve valutare anche il contenuto sostanziale della pretesa da lui fatta valere in giudizio, tenuto conto che il Giudice è vincolato soltanto ai fatti dedotti in causa dalle parti, ma non anche alla relativa qualificazione giuridica da esse fornita, la cui determinazione, invece, spetta esclusivamente a lui stesso. In ragione di ciò, la Corte di Cassazione – nel richiamare un proprio risalente orientamento (cfr. Cass. 19 febbraio 2016 n. 3291) – ha statuito che il Collegio romano, prima di rigettare la domanda risarcitoria formulata dal dipendente, avrebbe dovuto valutare – indipendentemente dalla qualificazione giuridica in termini di mobbing prospettata dal ricorrente – se la condotta posta in essere dal suo responsabile fosse, comunque, illecita ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., con conseguente violazione di interessi del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l’identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica, ecc.). Sotto questo profilo, gli Ermellini – citando una recente decisione resa in sede di legittimità (cfr. ordinanza 7 febbraio 2023 n. 3692) – hanno evidenziato che la Corte di merito avrebbe dovuto attribuire valore dirimente al fatto che, nel caso di specie, l’ambiente di lavoro era stressogeno e che, pertanto, il danno patito dal dipendente doveva, comunque, essergli risarcito.
Ciò in quanto, alla stregua di un costante orientamento del Supremo Collegio (cfr. Cass. n. 18164/2018; n. 3977/2018; n. 7844/2018; n. 12164/2018; n. 4222/2016), se una condotta illecita ex art. 2087 cod. civ., in quanto isolata ed episodica, non configura il mobbing a causa della mancanza dei caratteri di sistematicità e ripetitività della stessa, tuttavia può integrare gli estremi dello straining, quale forma attenuata di mobbing.
Del resto, la reiterazione della condotta illecita, l’intensità del dolo e/o eventuali ulteriori qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento, ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in gioco nella fattispecie in esame possono rimanere privi di qualsivoglia tutela, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale.