
A cura di Paola Balletti
Accade sovente che una società si rivolga ad un Legale in quanto, suo malgrado, si vede costretta a recedere dal patto di prova stipulato nell’ambito di un contratto di lavoro con una lavoratrice e, viceversa, dall’altro lato, che una lavoratrice richieda di essere assistita nell’impugnazione di un recesso dal contratto di lavoro esercitato dall’azienda, datrice di lavoro, per asserito mancato superamento del periodo di prova. Trattasi di questioni particolarmente delicate, in quanto seppure è vero che, in tale periodo, entrambe le parti possono recedere ad nutum (ex art. 2118 cod. civ.), senza obbligo di motivazione e senza obbligo di preavviso (art. 2096 comma 3 cod. civ.), occorre prestare attenzione, in caso di lavoratore donna, alle eventuali eccezioni in tema di discriminatorietà, benché a fronte del combinato disposto della pronuncia della Corte Costituzionale 31 maggio 1996, n. 172 e dell’art. 54 comma 3 lettera d) D.Lgs. 151/2001, il datore di lavoro possa recedere dal patto di prova addirittura nel caso di lavoratrice che si trovi in stato di gravidanza. Ai sensi e in conformità dell’art. 2096 cod. civ., occorre in primo luogo verificare: 1) che il patto di prova risulti essere stato apposto contestualmente (o anteriormente) alla stipulazione del contratto di lavoro, pena, in caso contrario, la sua nullità (Cass. n. 21758/2010; Cass. n. 8038/2002; Cass. n. 11597/1999); e pertanto 2) da atto scritto; 3) che il datore di lavoro e il prestatore di lavoro abbiano rispettivamente consentito e eseguito l’oggetto del patto di prova e, conseguentemente, 4) che siano indicate le mansioni oggetto di prova (Cass. n. 9597/2017; Cass. 5509 del 2015). Ed infatti ai fini dell’illegittimità e/o nullità del patto di prova, sotto il profilo della sua genericità, occorre rilevare che la stessa ricorre ogni qualvolta viene riportato unicamente il job title ( ad esempio “Managing director”; “Senior advisor”; “country manager”; “Category manager”, etc.), senza ulteriore ed opportuna specifica delle mansioni. Ravvisata la causa tipica del patto di prova nella tutela dell’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la convenienza del rapporto di lavoro, per evitare l’illegittimità del patto per incoerenza della suddetta causa, è necessario, pertanto, che esso contenga la specifica indicazione delle mansioni in relazione alle quali l’esperimento è destinato a svolgersi (Cass. Civ., 22 marzo 2000, n. 3451). All’esito del periodo definito, il datore di lavoro esprime la sua insindacabile valutazione sull’esito della prova, considerazioni che evidentemente possono essere validamente effettuate sulla base di mansioni adeguatamente e preventivamente identificate (Cass. Civ., 24 dicembre 1999, n. 14538; Cass. Civ., 26 maggio 1995, n. 5811). Proprio in relazione alla richiesta specificità delle mansioni oggetto di prova, la Suprema Corte ha puntualizzato anche la legittimità del rinvio alla contrattazione collettiva e nello specifico ha affermato che “il riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva può ritenersi sufficiente ad integrare il requisito della specificità dell’indicazione delle mansioni del lavoratore in prova solo se, rispetto alla scala definitoria di categorie, qualifiche, livelli e profili professionali il richiamo contenuto nel patto di prova sia fatto alla nozione più dettagliata. Se la categoria di un determinato livello accorpa una serie di profili professionali, è l’indicazione del singolo profilo a soddisfare l’esigenza di specificità delle mansioni, mentre l’indicazione della sola categoria difetterebbe di tale connotazione e sarebbe generica.” (Cass. Civ., 13 aprile 2017, n. 9597; Cass. Civ., 19 marzo 2015, n. 5509).
Nello stesso senso si è allineata la giurisprudenza di merito in due recenti occasioni (Corte d’appello di Milano, 9 dicembre 2020, n. 888; Tribunale di Palermo, sez. lav., 17 giugno 2020, n. 1616). Si segnala una interessante pronuncia della Corte d’appello di Campobasso in ordine alla rigorosa individuazione delle mansioni al crescere delle responsabilità conferite al lavoratore neoassunto “La necessità di specificazione delle mansioni su cui verte la prova si fa maggiormente stringente al crescere della qualifica. Se alla specificazione delle mansioni richiesta a un operaio semplice da sottoporre a prova ben può bastare il riferimento alla declaratoria contrattuale e la verifica del suo operato può seguire anche a un mese di lavoro, nel caso in cui il lavoratore sia chiamato a compiti di responsabilità, va da sé che gli spazi necessariamente lasciati vuoti dalla contrattazione collettiva – per ciò che concerne modalità e contenuti operativi delle relative mansioni – siano da colmare con la precisa indicazione degli obiettivi concretamente raggiungibili nel periodo di prova concordato, altrimenti rimanendo innegabile, in assenza di contenuti riscontrabili, o comunque suscettibili di alternative valutazioni, che il patto di prova, del incoerentemente con la sua causa, si risolverebbe in un agevole strumento di insindacabile potere di recesso datoriale in ragione di altrettanto insindacabile giudizio di gradimento del lavoratore, avulso da qualsivoglia possibilità di verifica delle qualità o capacità professionali del sottoposto a prova e del rendimento della sua opera, dunque in totale dissonanza con la ratio di tutela del comune interesse delle parti contrattuali a valutare la reciproca convenienza alla prosecuzione del rapporto che l’art. 2096 attribuisce all’assunzione in prova”( Corte app. Campobasso, 16 settembre 2014). Accertata la genericità del patto, il medesimo deve essere dichiarato nullo con successiva dichiarazione della natura definitiva del rapporto di lavoro ab origine. (“Il generico riferimento alla qualifica del livello – posto che la relativa contrattazione collettiva prevede una molteplicità di mansioni e di figure professionali – in assenza di ulteriori elementi di specificazione e atteso il tenore generico della dizione del contratto, determina un’indeterminatezza dell’oggetto dell’esperimento e comporta la dichiarazione di nullità del patto di prova e, poiché si tratta di clausola che vitiatur sed non vitiat, il contratto di lavoro deve essere dichiarato definitivo sin dall’origine” Trib. Milano, 12 luglio 2008). Fatta tale doverosa premessa, nel caso di lavoratore donna, occorre comunque accertarsi che la stessa abbia eventualmente comunicato o meno, nel periodo di prova ancora in corso, uno stato di gravidanza. Nel caso in cui, infatti, la lavoratrice si trovi in attesa di un bambino e lo abbia comunicato all’azienda, sempre nel suddetto periodo, il recesso da parte datoriale per mancato superamento del periodo di prova dovrà contenere i motivi che giustificano il giudizio negativo circa l’esito dell’esperimento, affinché il giudice possa svolgere un opportuno sindacato di merito sui reali motivi del recesso, al fine di escludere con ragionevole certezza che esso sia stato determinato dalla condizione di gravidanza della lavoratrice e sia quindi “discriminatorio”. (Tribunale di Monza 31.10.2001; Tribunale di Milano n. 1213 del 2018).
Nel caso in cui, al momento del recesso dal patto di prova, non fosse noto al datore di lavoro lo stato di gravidanza, avendolo comunicato la lavoratrice solo successivamente a tale recesso, nulla potrà addebitarsi al datore di lavoro in relazione alla mancata indicazione dei motivi del recesso dal patto, trattandosi di ipotesi di recesso per mancato superamento della prova che non richiede, alla stregua di ogni altro lavoratore, alcuna motivazione. Va da sé che, in entrambi i casi, ossia nell’ipotesi in cui sia avvenuta la comunicazione della gravidanza e nell’ipotesi in cui la stessa non sia stata comunicata, la lavoratrice a tutela dei suoi diritti, altra via non avrà se non quella di sostenere la nullità e/o illegittimità del patto per violazione dell’art. 2096 cod. civ. e della giurisprudenza sopra richiamata. In mancanza dei requisiti previsti dalla Legge, il patto di prova sarebbe infatti nullo; il rapporto di lavoro sarebbe sorto a tempo indeterminato e, pertanto, la conseguenza sarà la qualificazione del recesso quale licenziamento, con le relative tutele di Legge e di contratto, in termini di licenziamento illegittimo e/o ingiustificato. Una chance in più per la richiesta di reintegrazione in servizio, a fronte della nullità del recesso per discriminatorietà, potrebbe sussistere in capo alla lavoratrice che abbia comunicato il suo stato di gravidanza durante il periodo di prova, qualora riesca a dimostrare che la motivazione reale alla base del recesso sia stata determinata dallo stato di gravidanza, tanto più ove l’attività di lavoro sia stata svolta positivamente e con diligenza durante il suddetto periodo.
Va infine segnalato che la giurisprudenza (Cass. n. 402 del 17 gennaio 1998) ha ulteriormente esteso l’ambito del controllo da parte del Giudice sul licenziamento intimato dal datore di lavoro nel corso del periodo di prova. Infatti, richiamando alcuni precedenti della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 189, 22 dicembre 1980), la Suprema Corte ha escluso la legittimità del licenziamento inflitto per un motivo estraneo al rapporto di lavoro. In altre parole, il lavoratore/ la lavoratrice in gravidanza non è più tenuto a dimostrare che il licenziamento sia fondato su un motivo illecito, essendo invece sufficiente provare che il motivo del recesso, pur non essendo illecito, è estraneo al rapporto di lavoro; a questo punto il giudice, se ritiene non giustificato il motivo del licenziamento, deve dichiararne la illegittimità.