A cura di Vittorio Provera
L’azienda risponde dei danni al dipendente in presenza di una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, che non richiede un atteggiamento ostile e costante, ma può consistere anche in una sola azione – posta in essere normalmente da un responsabile – allorché è in grado di produrre effetti negativi nel tempo. In tal caso si realizza una condizione di straining che determina una responsabilità contrattuale del datore di lavoro per violazione dell’art. 2087 CC. Questo principio è stato recentemente confermato della Suprema Corte con la pronuncia 29101 del 19 ottobre 2023. La vicenda trae origine da una controversia avviata da un dipendente nei confronti del datore di lavoro per rivendicare il diritto ad un inquadramento superiore, richiedendo altresì il risarcimento dei danni contrattuali ed extracontrattuali per asserito mobbing. Nell’ambito del giudizio di merito era stata accolta la domanda concernente la mansione superiore, ma respinta quella riguardante l’accertamento del mobbing, per mancata prova della reiterazione delle condotte con riferimento ai singoli fatti “mobbizzanti” (demansionamento, inattività, emarginazione, trasferimento, pressioni per accettare la mobilità). Il lavoratore proponeva impugnativa avanti alla Suprema Corte lamentando, in sostanza, che pur avendo formulato domande formalmente riguardanti il mobbing, i fatti dedotti a comprova di un comportamento vessatorio datoriale dovevano essere riconosciuti come illeciti comportamenti di “straining”, tutelabile anch esso in forza delle disposizioni ex art. 2087 CC. Per inciso si ricorda che per “straining” si intende una situazione di stress forzato nell’ambito del posto di lavoro che può concretizzarsi in un solo atto lesivo in grado di produrre effetti negativi nel tempo in capo al dipendente. Nella fattispecie il responsabile intratteneva rapporti stressogeni con tutti i dipendenti e, soprattutto, nei confronti del ricorrente anche in ragione di particolari modalità di controllo. In particolare, sulla base di una testimonianza resa da una collega, era emerso che detta responsabile – in una determinata occasione – si era seduta nella postazione di lavoro del dipendente controllando il computer e cancellando alcuni file del sottoposto. A fronte di lamentele del medesimo, la stessa avrebbe risposto “io sono la capa, io comando e faccio quello che voglio”. Nella circostanza il sottoposto era colpito da attacco ischemico, con successivo ricovero. La Corte, nella specie, indipendentemente dalla qualificazione delle condotte come mobbing, ha statuito che quello che conta è che il fatto commesso – anche isolatamente – si configurava come un fatto illecito ex art. 2087 CC, con violazione di interessi del lavoratore protetti al più elevato livello dell’ordinamento (la sua integrità psicofisica, dignità, identità personale, partecipazione alla vita sociale politica). Quindi, anche solo in presenza di un unico episodio, si configura una responsabilità contrattuale a meno che l’azienda non abbia dimostrato di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza. Inoltre, a prescindere dal tenore meramente letterale degli atti depositati nell’interesse del lavoratore, il giudice deve guardare al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, cosicché anche un’istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con quella presente negli atti. Nella specie, poiché lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing in quanto priva della continuità, il suo verificarsi determina un diritto al risarcimento del danno. A prescindere dal caso illustrato, che presenta delle peculiarità significative circa la condotta tenuta, si deve rilevare che lo stress è sempre più frequentemente indicato come uno dei motivi di un malessere non ben identificabile. Di qui il rischio, da evitare, di un abuso del ricorso a i tale categoria giurisprudenziale, allorché sia utilizzata non per tutelare situazioni caratterizzate da reali vessazioni che pregiudicano l’integrità psicofisica dei dipendenti, ma per condizionare ed in taluni casi impedire legittime scelte organizzative dell’impresa.