Con la recente ordinanza n. 16580 del 23 maggio 2022, la Sezione Lavoro della Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di “straining”, contribuendo a meglio enucleare le differenze rispetto al mobbing ed escludendone la ricorrenza quando la sindrome depressiva è legata ad una reazione soggettiva del lavoratore rispetto a condizioni ordinariamente usuranti dell’attività lavorativa.
La Corte territoriale aveva respinto la domanda di risarcimento di una lavoratrice per asseriti comportamenti lesivi posti in essere da un superiore gerarchico (consistenti in richieste di specifiche rispetto a domande di permessi, assegnazione di incarichi per elaborazioni poi non utilizzate, mancata convocazione a riunioni, mancata autorizzazione a partecipare a corsi di aggiornamento, rimborsi spese negati, modalità improprie di consegna delle lettere di contestazione disciplinare, ecc.).
La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto che il datore di lavoro avesse fornito chiarimenti e ragionevoli motivazioni a giustificazione dei comportamenti tenuti, escludendo che si potesse ravvisare una strategia persecutoria nei confronti della lavoratrice e concludendo che la sindrome depressiva dalla stessa lamentata, benchè sussistente ed eziologicamente collegata all’ambiente lavorativo, fosse in realtà da ricondursi a una sua particolare risposta soggettiva rispetto a legittime decisioni organizzative interferenti con la sua persona.
La vertenza è così giunta in Cassazione, dove la lavoratrice ha sostenuto la violazione dell’art. 2087 del codice civile per essersi ritenuto che la mera legittimità delle condotte datoriali fosse sufficiente ad esimere il datore di lavoro da responsabilità, essendo lo stesso viceversa tenuto ad attivarsi per evitare comunque il danno.
La Corte di Cassazione, nel respingere la domanda, ci fornisce un interessante quadro riepilogativo degli approdi cui, in assenza di un quadro normativo di riferimento, è pervenuta la giurisprudenza con riferimento alle fattispecie limitrofe del mobbing e dello straining e al loro rapporto con l’obbligo generale di protezione di cui all’art. 2087 del codice civile, nel cui alveo si collocano.
In particolare, secondo l’ordinanza in commento:
– è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima e ciò a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico inquadrabile nell’ambito dell’ 2087 del codice civile;
– è configurabile lo straining (altrimenti noto anche come stress forzato sul luogo di lavoro o mobbing attenuato) quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie o esse siano limitate nel numero, ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori, anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l’esistenza di una condizione lesiva della salute secondo il paradigma del citato art. 2087 del codice civile.
La Corte di cassazione ha infatti più volte sottolineato che il giudice, in presenza di condotte asseritamente lesive della salute, della personalità morale e delle dignità di un lavoratore, è tenuto a valutare se tali comportamenti, pur in assenza di elementi che connotano il mobbing, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 del codice civile.
La giurisprudenza ha ad esempio ravvisato una violazione dell’art. 2087 del codice civile e della normativa a tutela della salute e sicurezza sul lavoro a fronte di condotte stressogene realizzate intenzionalmente dal datore di lavoro o dai suoi preposti attraverso azioni ostili isolate o comunque limitate nel numero, e dunque in assenza dei connotati di molteplicità, sistematicità e durata propri del mobbing, purché causative di un danno all’integrità psico-fisica e/o alla personalità morale, riconducendo tali azioni al fenomeno del c.d. straining ed osservando che, ai fini giuridici, ciò che conta è l’accertata esistenza di una condotta intenzionale, mossa da motivazione discriminatoria, da cui scaturisce una situazione di stress lavoro-correlata.
Si resta invece al di fuori della sfera di responsabilità dell’art. 2087 del codice civile ove i pregiudizi (asseritamente posti a base di una situazione di mobbing o straining) derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili.
Fatte queste precisazioni, la Corte di cassazione non nega che la lavoratrice abbia potuto sviluppare, in ragione anche dell’attività lavorativa, una sindrome depressiva, ricollegandone tuttavia l’insorgenza ad una sua particolare risposta soggettiva rispetto a decisioni organizzative assunte dal datore di lavoro e munite di ragionevoli motivazioni e giustificazioni.
Tale valutazione in sé esclude che, se anche in concreto l’effetto della convivenza lavorativa sia stato quello dell’insorgere in capo al lavoratore di una sindrome depressiva, di essa si possa incolpare a titolo risarcitorio il datore di lavoro.
In conclusione, secondo la Corte, una volta dimostrata l’ordinarietà del conflitto e della situazione organizzativa ed interpersonale rispetto alla tipologia di ambiente e l’assenza di elementi di esorbitanza da tale normale assetto calibrato sulla tipologia del singolo lavoro, va esclusa la responsabilità del datore di lavoro per i danni (psico-fisici e/o alla personalità) che il lavoratore abbia sofferto, non essendo tale fattispecie riconducibile né al mobbing, né allo straining, né più in generale alla violazione dell’art. 2087 del codice civile.