A cura di Andrea Beretta
(Cass. civ., sez. lav., ord., 3 febbraio 2023, n. 3361)
Una lavoratrice ricorreva in giudizio, chiedendo l’accertamento e la repressione del comportamento pretesamene discriminatorio, tenuto dal datore di lavoro, connesso alla disdetta del proprio contratto di apprendistato. In proposito, allegava le proprie due gravidanze, portate a termine nel corso del suddetto rapporto di lavoro e, inoltre, deduceva ulteriormente che era stata l’unica, tra circa 200 apprendisti, a non esser “confermata”. Il primo Giudice, in accoglimento del ricorso della lavoratrice – avverso il decreto di rigetto emesso all’esito della fase sommaria – ordinava al datore di lavoro di cessare il comportamento discriminatorio e di rimuoverne gli effetti, con reintegra della lavoratrice medesima e con la ricostruzione della propria carriera sotto il profilo giuridico ed economico, considerando la disdetta come mai intervenuta.
Sennonché, la Corte d’Appello di Cagliari, sez. distaccata di Sassari – adita dal datore di lavoro – in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la originaria domanda, ritenendo gli elementi addotti dalla lavoratrice, a sostegno del carattere discriminatorio della condotta, privi dei necessari caratteri di precisione e concordanza, tali da fondare una presunzione di condotta discriminatoria.
La Suprema Corte, investita dell’impugnativa della lavoratrice, innanzitutto, ha evidenziato – anche mediante il richiamo a precedenti giurisprudenziali in materia, quali Cass. n. 5476/2021 – che, in tema di comportamenti datoriali discriminatori fondati sul sesso, l’art. 40, d.lgs. n. 198/2006 stabilisce un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente. Questa è, infatti, tenuta solo a dimostrare un’ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare una presunzione di discriminazione; restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta.
In base a tali principi, la Corte di Cassazione, quindi, ha affermato che, a fronte dell’allegazione, da parte della lavoratrice, del fatto che la stessa fosse stata l’unica a non vedersi “confermato” il rapporto di lavoro, tra i circa 200 lavoratori che avevano svolto il medesimo apprendistato professionalizzante, il Giudice di appello aveva, però, del tutto omesso di esaminare detto elemento, onde verificare, in relazione al medesimo, l’esistenza di un possibile fattore di discriminazione e far, conseguentemente, “scattare” l’onere probatorio c.d. liberatorio a carico della parte datoriale. Inoltre, sempre secondo gli Ermellini, la Corte d’appello aveva errato pure nel valorizzare in modo particolare la circostanza rappresentata dall’asserito carattere neutro (ovvero non idoneo a fondare la presunzione di discriminazione) della disdetta. Con ciò, non considerando che, in generale, anche le condotte ritenute neutre devono esser pur sempre collocate nel più ampio contesto delle ulteriori concrete circostanze (tra cui, nel caso in questione, la già ricordata “conferma” di circa 200 apprendisti e non della ricorrente), per valutare se il complesso degli elementi acquisiti risulti idoneo a sorreggere il ragionamento presuntivo circa la esistenza di un possibile fattore di discriminazione (connesso, nel caso concreto, alle gravidanze portate a termine dalla lavoratrice, nel periodo di apprendistato).
Stante le sopra segnalate carenze della decisione d’appello, la Suprema Corte ha, quindi, accolto il ricorso per cassazione della lavoratrice, con rinvio alla Corte territoriale, per il riesame della concreta fattispecie, alla luce dei principi di diritto enunciati.