Gruppo societario – Prodotto difettoso – Tutela del consumatore

Gruppo societario – Prodotto difettoso –  Tutela del consumatore

A cura di Bonaventura Minutolo

L’ordinanza interlocutoria della Cassazione n. 6568 del 6.3.23.

La questione, posta dalla recente ordinanza interlocutoria della Suprema Corte (in epigrafe), riguarda un profilo processuale relativo alla legittimazione passiva della convenuta (FORD ITALIA S.p.A.), laddove non risultava evocata in giudizio la vera produttrice (FORD MONDEO GHIA) della vettura difettosa, che aveva causato danni al compratore, sicché si è ritenuto, nell’ambito dei poteri riconosciuti al giudice di legittimità, di superare l’ostacolo formale, con la verifica – in base alla normativa nazionale e comunitaria – se la convenuta (quale fornitrice) potesse essere – ad un tempo – ritenuta anche produttrice dell’auto difettosa (malfunzionamento dell’air-bag), che aveva causato i danni rivendicati dal compratore.
Premesso che l’organizzazione produttiva e distributiva nei vari settori industriali e commerciali evidenzia il consolidato fenomeno (nella specie delle aziende automobilistiche) di decentrare la produzione, costituendo in nazioni estere imprese societarie deputate alla produzione di propri modelli, è certo che – secondo il nostro sistema normativo – il gruppo societario non è considerato soggetto unitario, ma ciascuna società del gruppo conserva la propria individualità soggettiva.
Solo in alcuni stati della comunità europea e per determinati settori (es. fiscale) si è ritenuto che il gruppo societario formato da persone giuridiche indipendenti, ma strumentalmente vincolate fra loro da rapporti finanziari, economici ed organizzativi, possa costituire un unico soggetto, qualora la società madre sia in grado di imporre la propria volontà nei confronti delle altre società facenti parte del gruppo e a patto che detta condizione non comporti un rischio di perdita fiscale.
Fermo dunque che nel nostro sistema normativo le singole società del medesimo gruppo conservano la loro specifica soggettività (attiva e passiva), la questione all’esame della Suprema Corte, riguarda una richiesta risarcitoria di un consumatore, acquirente di una vettura (FORD Mondeo Ghia), che ha convenuto in giudizio Ford Italia S.p.A. innanzi al Tribunale di Bologna, denunciando un difetto della vettura (mancato funzionamento di un air-bag). La convenuta (FORD ITALIA) negava la propria legittimazione passiva evidenziando che la vettura era stata prodotta da una società del suo gruppo che – peraltro – non veniva chiamata in causa (ex art. 106 c.p.c.). In sede di legittimità, dunque, la Corte osserva che, benché non fosse chiara la motivazione del giudice di merito, costui aveva, in qualche modo, prospettato che la distributrice (fornitrice) dell’auto avrebbe potuto rivestire anche il ruolo di produttrice, posto che l’omonimia delle due società (la comunanza del termine FORD) avrebbe potuto contraddistinguere anche il prodotto ai termini dell’art. 3 D.P.R. n. 224 – del 1988 – che, dopo aver definito “Produttrice” il fabbricante del prodotto finito o di una sua componente ed il fornitore della materia prima, estende la qualità di produttore (comma 2) “… a chi si presenti come tale, apponendo il proprio nome, marchio o altro segno distintivo sul prodotto o sulla confezione„.
Norma che, osserva la Cassazione, rispecchia il contenuto della direttiva 85/374 CEE – che recita “… chiunque si presenti come produttore apponendo il suo nome, marchio o altro segno distintivo „.
La ratio della richiamata norma (comunitaria o nazionale), da un punto di vista generale, mira a tutelare il consumatore in presenza – tuttavia – di qualche elemento che concorra a giustificare l’affidamento del consumatore circa l’appartenenza del prodotto a chi la espone e promuove.
In dottrina si è ricorso all’esempio di prodotti venduti in un supermercato, laddove appare implicita la condivisione dei prodotti in vendita da parte del venditore, rendendoli propri.
Al di fuori di tale ipotesi, il punto fondamentale del dubbio interpretativo sorto in sede di legittimità, origina dall’uso del termine “appone” che la norma comunitaria utilizza (in luogo di quella adottata dalla normativa italiana). In altri termini, la Corte si chiede se l’uso del termine della direttiva europea (appone sul prodotto il proprio nome etc.) non sia casuale, ma mira ad assicurare il consumatore che un determinato prodotto è – in ogni caso – fatto proprio dal distributore, il quale – ovviamente – risponderà nella ipotesi in cui si manifesti difettoso. La Corte si chiede dunque, laddove la norma italiana non utilizza lo stesso termine (appone) ma quello diverso di “indicazione dei dati identificativi del produttore, come debba intendersi l’espressione “apponendo il proprio nome”; cioè se l’apposizione debba essere solo una materiale impressione dell’elemento distintivo sul prodotto o se l’apposizione sia “lato sensu”, e dunque include pure la presenza dell’elemento distintivo sul prodotto, anche nei dati identificativi del soggetto, che in tal modo si presenta «come produttore», oggettivamente, generando una confusione di individuazione del produttore che potrebbe risolversi a favore del soggetto debole, il consumatore, anche se il dettato normativo non appare inequivoco, bensì compatibile con più letture. E’ su queste basi che viene redatto il quesito interpretativo sottoposto alla Corte di Giustizia Europea che, in via pregiudiziale, dovrà dire “se sia conforme all’art. 3, comma I, Direttiva 85/374 CEE – e, se non sia conforme, perché non lo sia – l’interpretazione che estenda la responsabilità del produttore al fornitore, anche se quest’ultimo non abbia materialmente apposto sul bene il proprio nome, marchio o altro segno distintivo, ma solo perché il fornitore abbia una denominazione e/o un marchio o un altro segno distintivo in tutto o in parte coincidenti con quello del produttore.
Il dubbio interpretativo è – a nostro avviso – condivisibile nell’ambito della normativa di tutela del consumatore (soggetto debole), perché – come l’ordinanza giustamente osserva, l’alto livello di tale tutela impone un’altrettanta elevata valutazione dell’elemento confusorio, rapportato alla massa dei consumatori.

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