A cura di Anna Maria Corna
La Corte d’Appello di Milano, con la recente sentenza n. 883, del 26 ottobre 2023 ha ribadito che nel caso di “duplice licenziamento .. deve escludersi che l’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro conseguente all’accertamento giudiziale della illegittimità del primo licenziamento implichi l’imprescindibile accertamento della giuridica persistenza del rapporto al momento della emanazione della decisione, dovendosi invero ritenere il rapporto comunque cessato in forza del secondo licenziamento (e ciò sintanto che quest’ultimo non venga a sua volta dichiarato illegittimo o invalido)”, precisando che “l’accertamento dell’inidoneità del licenziamento ad estinguere il rapporto stesso” è limitata “al momento in cui è stato intimato”, per cui detto accertamento non può estendersi “anche ad intervalli di tempo successivi, sicché l’ordine di reintegrazione e la condanna al pagamento delle retribuzioni per il periodo successivo al recesso datoriale restano condizionati alla permanenza del rapporto dopo il licenziamento e alla possibile incidenza di ulteriori (e successivi) fatti o atti idonei a determinare la risoluzione del rapporto stesso”.
Ciò secondo la Corte d’Appello di Milano anche laddove vi sia stato ab origine un contratto di lavoro a tempo determinato, posto che l’accertamento della nullità del termine, anche se dichiarato ancora in sede di rinvio, ha, comunque, effetto ex tunc e non può andare a ricostituire un rapporto di lavoro poi cessato per altri autonomi motivi. Nel caso specifico, un lavoratore aveva cercato di far valere con effetto ex nunc la declaratoria di nullità del termine, affermata sempre dalla Corte Milanese in sede di rinvio (con conferma della sentenza di primo grado), chiedendo, ben dopo 5 anni da detta pronuncia e quasi 11 da un licenziamento che era intervenuto nel corso del rapporto di lavoro ricostituito a seguito della sentenza di primo grado, il ripristino e il risarcimento del danno per le retribuzioni perdute dalla predetta sentenza di cinque anni prima.
Principi questi costantemente affermati anche dalla Suprema Corte, secondo cui rimane sempre salvo un successivo “valido atto risolutivo del datore di lavoro, che ha un’autonoma e successiva efficacia estintiva, così come l’atto risolutivo riconducibile ad una volontà concludente del lavoratore” (V. Cass. sez. VI – 27/04/2022, n. 13203; conf. Cass. sez. lav. – 12/10/2021, n. 27787; Cass. sez. lav. – 17/04/2019, n. 10721).
Di conseguenza il diritto al risarcimento del danno cessa nel momento in cui il rapporto viene definitivamente risolto, per volontà di una delle parti, considerato anche che nell’ipotesi in cui nelle more del giudizio il lavoratore sia andato in pensione, il medesimo sarebbe “esposto all’azione di ripetizione da parte del soggetto erogatore della pensione di vecchiaia per i trattamenti previdenziali ricevuti che, altrimenti, sarebbero pacificamente indebiti (per tutte v. Cass. n. 16350 del 2017) e neanche detraibili quale aliunde perceptum (per tutte v. Cass. SS.UU. n. 12194 del 2002), precludendo così anche eventuali locupletazioni” (Cass. sez. VI – 27/04/2022, n. 13203).
Stanti i predetti consolidati principi della Suprema Corte, la domanda di pagamento di un risarcimento del danno/retribuzioni perdute fino all’ottemperamento della sentenza di condanna alla reintegra o al ripristino del rapporto di lavoro, promossa dopo vari anni da tale sentenza e nonostante, nel frattempo, sia cessato il rapporto di lavoro, avendo il lavoratore deciso di fruire della pensione, pare, per il periodo successivo alla cessazione del rapporto, già “a prima vista” temeraria.
Tuttavia domande di questo tipo non solo vengono proposte, ma purtroppo trovano anche accoglimento da parte di alcuni Tribunale (V. due recenti sentenze del Tribunale di Padova), che pare non vogliano mai porre fine al rapporto di lavoro, consentendo, così, un ingiusto arricchimento da parte del lavoratore.
E’, infatti, stato ritenuto che la scelta del pensionamento non sarebbe determinate, in quanto “non sarebbe possibile stabilire retrospettivamente se il lavoratore avrebbe scelto egualmente il pensionamento” ove fosse stata data tempestivamente esecuzione alla sentenza di condanna alla ricostituzione del rapporto, si che, ove il lavoratore non restituisca all’INPS la pensione, questa andrebbe a cumularsi con il risarcimento, dando proprio luogo a quella locupletazione che la Suprema Corte afferma si debba evitare.
Fermo che parimenti nulla consentirebbe di ritenere il contrario (ovvero che il lavoratore si sarebbe comunque dimesso), a nostro avviso non rilevano i motivi per cui è cessato il rapporto, ma solo questo dato fattuale, oltre il quale deve venir necessariamente meno ogni onere risarcitorio e/o retributivo, che presuppone la persistenza del rapporto e non già la sua definitiva cessazione a seguito di altro valido e distinto atto risolutivo di una delle parti del rapporto.