A cura di Alice Testa
Il cittadino di un Paese terzo, che sia residente in Italia e titolare di un permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ha diritto a percepire il c.d. “bonus bebè”, anche se privo del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Questo il principio ribadito dalla Suprema Corte con l’Ordinanza n. 4364 del 13 febbraio 2023.
Il caso giunto all’attenzione del Collegio traeva origine dal diniego dell’Inps a riconoscere ad un cittadino extra UE residente in Italia, e titolare di permesso di soggiorno per motivi lavorativi, l’assegno di natalità di cui all’art. 1, commi da 125 a 129, della Legge n. 190/14, per assenza in capo al soggetto richiedente del requisito del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo di cui all’art. 9 d. lgs. n. 286/98.
Secondo l’Istituto, infatti, in assenza di un’espressa e specifica previsione di legge, la prestazione prevista dal c.d. “bonus bebè” non avrebbe dovuto ritenersi estesa anche in favore del lavoratore extracomunitario.
Sia il Tribunale di primo grado che poi la Corte di Appello ritenevano di non condividere le motivazioni addotte dall’Inps, rilevando la natura discriminatoria della condotta tenuta dall’Ente, che aveva omesso di riconoscere l’assegno in parola sul solo assunto per cui il soggetto istante fosse sì in possesso del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, ma, tuttavia, non di quello per soggiornanti di lungo periodo.
La Corte di Appello osservava, in particolare, la contrarietà dell’operato dell’Inps alla normativa europea in materia di prestazioni di sicurezza sociale. Dovendo, infatti, l’assegno di natalità considerarsi una prestazione di carattere assistenziale e, dunque, rientrante nell’alveolo delle prestazioni di sicurezza sociale di cui al Regolamento CE n. 883/04, lo stesso avrebbe dovuto essere garantito anche ai lavoratori di Paesi terzi ammessi in uno Stato membro ai fini lavorativi, in ottemperanza alle disposizioni di cui all’art. 12 della Direttiva n. 2011/98/UE. Avverso la sentenza della Corte di Appello proponeva ricorso in Cassazione l’Inps.
La Suprema Corte, però, condividendo le conclusioni a cui erano giunti i Giudici di merito, ha ritenuto infondate le doglianze dell’Istituto sulla scorta delle seguenti argomentazioni.
Il Collegio ha, innanzitutto, rilevato come la riconducibilità dell’assegno di natalità alle prestazioni familiari di cui all’art. 3, paragrafo 1, lett. j) del Regolamento CE n. 883/04 fosse già stata chiarita dalla Corte di Giustizia UE, con Sentenza 2.9.21, nella causa C-350/20. Pertanto, continua la Corte, dalla possibilità di inserire anche il bonus natalità nelle prestazioni di carattere familiare di cui alla normativa europea, ne discende come, in base all’art. 12, paragrafo 1 lett. e) della Direttiva n. 2011/98/UE, anche l’assegno bebè debba essere riconosciuto, a parità di condizioni con i cittadini italiani, anche ai cittadini di paesi terzi residenti in Italia ai sensi dell’art. 3, paragrafo 1, lettere b), c) della stessa Direttiva.
Il Collegio ha poi ricordato come la materia sia stata recentemente oggetto di esame anche da parte della Corte Costituzionale che, con Sentenza n. 54/2022, ha rilevato la natura discriminatoria e irragionevole dell’art. 1, comma 125 della Legge 190/14 (nella versione antecedente alle modifiche introdotte dalla Legge 238/2021 ed applicabile temporalmente al caso di specie) nella parte in cui escludeva la concessione dell’assegno di natalità ai cittadini di Paesi terzi soggiornanti nello Stato per motivi di lavoro, limitandola ai soli stranieri muniti di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.
Alla luce di tali considerazioni e dell’intervento della Consulta, conclude la Cassazione, l’assegno di natalità spetta anche al cittadino di un Paese terzo ammesso in Italia a fini lavorativi che sia privo del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo.