L’ex coniuge non ha diritto ad una quota dell’incentivo all’esodo (Commento a Cass. Sez. Unite 7 marzo 2024, n. 6229)

L’ex coniuge non ha diritto ad una quota dell’incentivo all’esodo (Commento a Cass. Sez. Unite 7 marzo 2024, n. 6229)

A cura di Marina Tona

Con la recente sentenza n. 6229 del 7 marzo 2024 la Suprema Corte a Sezioni Unite ha escluso il diritto dell’ex coniuge, titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze, a percepire, ai sensi dell’art. 12-bis della L. n. 898/1970, una quota dell’incentivo all’esodo corrisposto in occasione della cessazione del rapporto di lavoro. Come è noto, l’art. 12-bis della L. n. 898/1970 prevede, al primo comma che il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se è titolare di assegno di divorzio (ex art. 5, co. 6, L. n. 898/1970) e non è passato a nuove nozze, ad una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Tale percentuale è pari al 40% dell’indennità totale riferibile agli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio. La questione decisa dalle Sezioni Unite riguarda la possibilità di includere tra le indennità di fine rapporto rispetto alle quali la legge riconosce il diritto dell’ex coniuge ad una quota, anche le somme corrisposte a titolo di incentivo all’esodo. La decisione della causa è stata rimessa alle Sezioni Unite in ragione dell’esistenza di pronunce contrastanti sul tema. Secondo un più recente orientamento, richiamato dalla ricorrente per sostenere il proprio diritto alla corresponsione anche di una quota dell’incentivo all’esodo, le somme corrisposte a titolo di incentivo all’esodo, al fine di agevolare lo scioglimento del rapporto di lavoro devono farsi rientrare nelle indennità di fine rapporto di cui all’art. 12-bis in quanto si tratta di importi che non hanno natura liberale o eccezionale e costituiscono una controprestazione alla risoluzione anticipata del rapporto che soggiace, tra l’altro, al medesimo trattamento fiscale delle indennità di fine rapporto (Cass. 12 luglio 2016, n. 14171). In altre decisioni, più risalenti, la Suprema Corte aveva, invece, escluso l’incentivo all’esodo dalle “indennità di fine rapporto” argomentando che l’art. 12-bis si riferisce esclusivamente a quelle indennità – comunque denominate – che maturano alla cessazione del rapporto di lavoro e sono determinate in proporzione alla durata del rapporto medesimo e all’entità della retribuzione corrisposta al lavoratore, caratteri che non ricorrono nell’incentivo all’esodo (Cass. 17 aprile 1997, n. 3294; Cass. 17 dicembre 2003, n. 19309). Le Sezioni Unite, richiamati i lavori parlamentari e la giurisprudenza di legittimità e costituzionale sull’assegno divorzile e l’art. 12-bis della L. n. 898/1970, hanno posto in rilievo come la ratio dell’art. 12-bis debba essere individuata nel “fine di attuare una partecipazione, seppur posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato ….. così soddisfacendo esigenze (non solo di natura assistenziale, evidenziate dal richiamo alla spettanza dell’assegno di divorzio, ma) anche di natura compensativa, rapportate cioè al contributo personale ed economico dato dall’ex coniuge alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune”.
L’attribuzione della quota delle indennità di fine rapporto limitatamente ai soli anni in cui il rapporto di lavoro è coinciso con il matrimonio ha, dunque, una duplice funzione, assistenziale e perequativa-compensativa e si ricollega all’incremento patrimoniale prodotto, nel corso del rapporto, dal lavoro di un coniuge e dal contributo indiretto dell’altro.
Cosicché, precisa la Corte, “appare pienamente giustificato tener conto anche di quella porzione reddituale maturata nel corso del rapporto e accantonata periodicamente per divenire esigibile al momento della cessazione dello stesso, giacché essa pure integra un incremento conseguito attraverso il contributo prestato dal coniuge che ha sopportato il detto sacrificio. Ove quella retribuzione differita restasse a totale beneficio del soggetto cui è erogata, il rischio di uno sbilanciamento ingiustificato tra le posizioni patrimoniali dei coniugi si riproporrebbe proprio con riguardo all’incremento reddituale in questione, il quale è maturato in costanza del matrimonio ed è divenuto esigibile solo dopo lo scioglimento di esso”.
In questa prospettiva, sono da ritenere incluse nella disciplina dell’art. 12-bis della L. n. 898/1970:
• le indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici che pure consistono in quote differite della retribuzione, suscettibili di esazione dopo l’estinzione del rapporto di lavoro;
• le indennità, egualmente concepite, riferite ai rapporti di lavoro parasubordinato.
Sono invece da ritenersi escluse:
• le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, come l’indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai
• l’indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco
• l’indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento, le quali hanno ad oggetto il ristoro di un danno le cui conseguenze si sviluppano nel futuro.
Ed è, parimenti da escludersi, l’incentivo all’esodo in quanto questo, come sottolineato dalla Suprema Corte, non si configura come retribuzione differita, accantonata nel corso del rapporto di lavoro e divenuta esigibile alla cessazione del rapporto stesso, ma si tratta di una attribuzione patrimoniale conseguente ad un accordo con cui si remunera il coniuge lavoratore per il consenso prestato all’anticipato scioglimento del rapporto di lavoro. L’incentivo all’esodo, non avendo natura di retribuzione differita, non rientra pertanto, nella quota dell’indennità di fine rapporto spettante al coniuge titolare dell’assegno divorzile e non passato a nuove nozze.

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