A cura di Orazio Marano
Con una recente pronunzia (l’ordinanza n. 31660 del 14 novembre 2023), la Suprema Corte ha affermato il principio per cui, ai fini del controllo del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (consistente in una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi aziendali), grava sul datore di lavoro la prova delle ragioni per le quali la scelta è ricaduta su quel determinato lavoratore, onde poter accertare l’effettività della scelta effettuata a valle della soppressione di un unico posto di lavoro. Il che richiede la necessità di prendere in considerazione altre posizioni di lavoro, tanto più se si tratta di ruoli comparabili con quello ricoperto dal licenziato.
Nel motivare quanto sopra, i giudici di legittimità hanno evidenziato che la sentenza della Corte d’Appello sottoposta al loro vaglio, laddove afferma di non potere in alcun modo sindacare la ragione addotta “in quanto qualsiasi risparmio di spesa, a prescindere dall’ammontare, sarebbe stato comunque in grado di giustificare il licenziamento e quindi la scelta del lavoratore” (tanto da non considerare le osservazioni del lavoratore licenziato concernenti la mancata soppressione di un altro e più costoso posto di lavoro, sul presupposto che si tratterebbe di scelte datoriali insindacabili), ha non solo violato le regole in materia di accertamento del necessario collegamento causale tra la ragione oggettiva addotta dal datore di lavoro a fondamento del giustificato motivo di licenziamento e la soppressione del posto di lavoro, ma anche quelle sull’effettività di detta ragione. La pronunzia in commento riveste particolare importanza (anche nell’ottica di una corretta redazione della lettera di recesso, come infra meglio si dirà), in quanto afferma il principio (che peraltro non pare rinvenirsi in altra precedente sentenza dei giudici di legittimità – la n. 35225 del 30 novembre 2022 – su una fattispecie analoga, ove l’obiettivo era addirittura quello di aumentare i profitti, non ridurre le perdite), per cui non basta sostenere la necessità di risparmio a giustificazione di un recesso motivato con l’obiettivo di contenere i costi aziendali (in ragione, ad esempio, di un “passivo” di bilancio, come nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità). Così facendo, infatti, secondo questi ultimi, non si comprende perché dovesse essere operato un taglio proprio in quel settore, piuttosto che in un altro, considerato che nella lettera di licenziamento il recesso veniva prospettato quale misura inserita in una riorganizzazione più ampia, da attuarsi anche attraverso la riduzione dei costi del lavoro. Non risultava, quindi, correttamente accertato che i costi da ridurre dovessero essere necessariamente quelli relativi alla posizione soppressa, né era condivisibile quanto affermato dalla Corte territoriale circa l’insindacabilità della scelta datoriale, sul presupposto che qualsiasi risparmio di spesa – a prescindere dal suo ammontare – sarebbe stato comunque in grado di giustificare il recesso. Quanto sopra (si legge nell’ordinanza in commento), senza che peraltro ciò trasmodi in indebita interferenza con la discrezionalità delle scelte datoriali, dato che (come osservato dai giudici di legittimità in altra pronunzia, la n. 25201 del 7 dicembre 2016) l’ineffettività della ragione economica comunque addotta incide sulla stessa legittimità del recesso “non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore”.
Il che, ad avviso di chi scrive, rappresenta una limitazione alla discrezionalità delle scelte del datore di lavoro, nella misura in cui impone comunque l’esistenza di un collegamento tra l’addotto contenimento (generalizzato) dei costi e la soppressione di una specifica posizione; ed infatti, qualunque risorsa rappresenta un “costo” per l’imprenditore, il quale dovrebbe avere l’insindacabile facoltà di farne a meno senza essere onerato di ulteriori oneri probatori, se non quello di dimostrare di avere effettivamente soppresso la posizione a cui la risorsa licenziata era addetta (con quindi l’eliminazione delle relative mansioni o la loro redistribuzione tra altri addetti) e, conseguentemente, di avere ridotto i costi aziendali (che costituivano la ragione posta a fondamento del recesso). Al di là di detti rilievi, stante il principio affermato nella pronunzia in commento, è di fondamentale importanza indicare in modo specifico – nella lettera di licenziamento – il nesso tra la necessità di contenere i costi aziendali e la soppressione della posizione prescelta (con riferimento sia alla necessità di conseguire il risparmio in quel determinato settore lavorativo, che alla comparabilità della stessa con altre nel caso di mansioni fungibili – per caratteristiche – con quelle svolte da altri lavoratori, nonché in relazione alla maggior incidenza – in termini di risparmio – della posizione da sopprimere prescelta rispetto ad altre).