A cura di Orazio Marano
Ai fini della sussistenza del c.d. giustificato motivo oggettivo, non è necessario che vengano eliminate tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato.
Con un’interessante recente pronunzia (l’ordinanza n. 2739 del 30 gennaio 2024), la Suprema Corte ha affermato il principio per cui, ai fini della configurabilità dell’ipotesi di soppressione del posto di lavoro, integrante il giustificato motivo oggettivo di recesso, non è necessario che vengano eliminate in modo assoluto e definitivo tutte le mansioni in precedenza attribuite al lavoratore licenziato, atteso che le stesse ben possono essere diversamente (quindi non necessariamente in toto) ripartite tra il personale in forza.
Quanto sopra, in ragione del fatto che le scelte datoriali relative ad una redistribuzione o diversa organizzazione imprenditoriale sono insindacabili e pertanto legittime, senza che detta operazione di eliminazione parziale comporti il venir meno dell’effettività della soppressione della posizione lavorativa (come peraltro affermato dai giudici di legittimità nelle precedenti pronunzie n. 8135 del 2000, n. 13021 del 2001 e n. 21282 del 2006). Nel motivare quanto sopra, i giudici di legittimità hanno evidenziato che l’eliminazione parziale delle mansioni connesse ad una determinata posizione lavorativa presuppone ed implica che ci sia una (maggiore o minore) attività residuale che il lavoratore licenziato potrebbe continuare a svolgere, per il solo fatto che già la espletava in precedenza. A fronte di ciò, il datore di lavoro non può non considerare questa parziale utilità residuale della prestazione lavorativa, dovendo quindi prima verificare l’impossibilità (o meno), per ragioni tecnico-produttive, di un espletamento (anche in regime di part-time) – ad opera del lavoratore solo parzialmente eccedentario – della parte di prestazione lavorativa “residuale” all’esito dell’eliminazione di parte delle mansioni dal medesimo in precedenza svolte.
Nell’effettuare detta preventiva verifica di possibile utilizzo parziale del lavoratore nella medesima posizione lavorativa (se del caso ridotta con l’adozione di un part-time), è necessario – afferma la Suprema Corte nell’ordinanza in commento – che le mansioni diverse da quelle soppresse rivestano, nell’ambito del complesso dell’attività lavorativa precedentemente svolta dall’interessato, una loro oggettiva autonomia, vale a dire non risultino strettamente connesse con quelle (prevalenti) eliminate. Solo in detta ipotesi, infatti, è possibile ritenere che il residuo impiego – anche a tempo parziale – nelle mansioni non eliminate, non determini la creazione di una diversa ed autonoma posizione lavorativa, che altererebbe indebitamente il funzionamento dell’organizzazione aziendale.
In sostanza, l’attività – pur minoritaria – non oggetto di soppressione dovrebbe qualificarsi in termini di effettiva autonomia dalle altre (eliminate) che caratterizzavano la posizione lavorativa, quindi indipendente e distinta da queste ultime anche in termini logistici e temporali e non ad esse strettamente connessa, come dovrebbe invece ritenersi laddove le mansioni non eliminate fossero svolte in via sostanzialmente ausiliaria o complementare a quelle oggetto di soppressione (come pure affermato in Cass. n. 11402/2012).
Detta autonomia “oggettiva” del complesso delle mansioni non eliminate, conclude la Corte, non ricorre anche quando – come accertato dalla Corte d’Appello nella sentenza sottoposta al vaglio dei giudici di legittimità – dette mansioni abbiano un carattere residuale non quantitativamente rilevante ed occasionale, rispetto ai compiti assegnati ad altri dipendenti.
La pronunzia in commento riveste particolare importanza, in quanto ripropone la delicata questione degli oneri probatori gravanti sul datore di lavoro con riferimento al recesso per giustificato motivo oggettivo determinato dalla soppressione della posizione lavorativa, che in fattispecie come quella oggetto della pronunzia in commento sono ancor più gravosi proprio per la “parzialità” dell’eliminazione delle mansioni, che – come visto – richiede una preliminare valutazione sull’autonomia o meno delle attività residue (e quindi della loro utilità concreta nell’ambito dell’organizzazione aziendale), da effettuarsi tenendo conto dei principi giurisprudenziali suesposti. Il che suggerisce di ponderare ipotesi di licenziamento per soppressione della posizione lavorativa non accompagnata dall’eliminazione totale delle mansioni che la caratterizzano, nel cui ambito il rischio di una valutazione giudiziale circa l’autonomia delle attività non eliminate (con conseguente accertamento dell’illegittimità del recesso) sarebbe innegabilmente più elevato. Quanto sopra, senza dimenticare l’ulteriore onere probatorio gravante sul datore di lavoro circa l’assolvimento del c.d. obbligo di repechage (anche in posizioni lavorative caratterizzate da mansioni di livello inferiore), la cui violazione – per orientamento oramai pacifico della giurisprudenza – configura un’ipotesi di assenza del “fatto costitutivo del giustificato motivo oggettivo” (cfr. Cass. n. 35496/2022), con conseguente obbligo di reintegrazione del lavoratore licenziato ai sensi dell’art. 18, quarto comma, Stat. Lav.