Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica: la valutazione del medico aziendale può essere rivista e superata da documentazione contraria di “rilevanza probatoria qualificata”

Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica: la valutazione del medico aziendale può essere rivista e superata da documentazione contraria di “rilevanza probatoria qualificata”

A cura di Orazio Marano

Con un’importante recente sentenza (la n. 323 del 4 marzo 2024), la Corte d’Appello di Milano, pronunciatasi in una fattispecie di licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica di un lavoratore (con qualifica di operaio e mansioni di magazziniere e manutentore), ha affermato – nel confermare l’illegittimità del recesso dichiarata dal giudice di primo grado – diversi principi di diritto, tra i quali (di particolare importanza) quello per cui la valutazione dell’organo ispettivo (in tal caso il medico aziendale) non è assistita da una particolare “fede pubblica”, sicché non è vincolante per il giudice chiamato ad accertare l’impossibilità (o meno) dello svolgimento dell’attività lavorativa da parte del lavoratore, licenziato all’esito delle risultanze della visita aziendale attestante l’inidoneità alle mansioni assegnategli.
Nel caso in esame, il lavoratore licenziato aveva depositato – nel corso del primo grado di giudizio – una relazione redatta da un Istituto medico che aveva ottenuto il “riconoscimento del carattere scientifico” oltre che “finanziamenti pubblici”, relazione che smentiva l’inidoneità alla mansione accertata dal medico aziendale.
Detta documentazione, seppur di parte, è stata ritenuta dai giudici d’appello di “rilevanza probatoria qualificata” e non era stata contestata dall’ex datrice di lavoro (rimasta contumace nel primo grado di giudizio). Sulla scorta di dette considerazioni e tenuto altresì conto che la giurisprudenza, formatasi in tema di accertamenti sanitari ex art. 5 della legge n. 300/70 (Statuto dei Lavoratori), ha sempre ritenuto che la valutazione dell’organo ispettivo non sia assistita da una particolare “fede pubblica” (trattandosi di un giudizio e non già della constatazione di un fatto) e che quindi le relative diagnosi possano essere contestate con ogni mezzo consentito dall’ordinamento processuale, la Corte d’Appello ha richiamato il principio per cui, nel caso di contrasto di valutazioni tra il contenuto del certificato del medico curante del lavoratore e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo (o da altro sanitario appositamente delegato), il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire quale delle contrastanti certificazioni sia maggiormente attendibile. Il che ha portato alla valutazione di una maggior attendibilità della relazione medica prodotta dal lavoratore licenziato (unicamente – parrebbe – per assenza di contestazione della stessa da parte della ex datrice di lavoro).
Da qui l’accertata illegittimità del recesso, che peraltro è stata rilevata dai giudici d’appello anche sotto il profilo del difetto di prova dell’impossibilità di assegnare al lavoratore licenziato mansioni diverse (anche inferiori) compatibili con il suo stato di salute (circostanza peraltro emersa, in termini di prova contraria fornita dall’interessato, nel corso del primo grado di giudizio).
L’unica censura della società appellante accolta concerne la quantificazione dell’indennità risarcitoria (determinata dal Tribunale in 24 mensilità e ridotta dalla Corte a 15 mensilità, in ragione dell’anzianità di servizio, delle dimensioni dell’azienda e del numero di dipendenti impiegati).
La pronunzia, ad avviso di chi scrive, si espone a censure e rilievi nella parte in cui la Corte d’Appello ha attribuito valore probatorio preminente alla relazione medica prodotta dal lavoratore, senza però darne adeguata motivazione. Ed infatti, al di là dei richiami ai precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte di Cassazione, non si rinviene in motivazione alcun “argomento” sull’esame comparativo tra le due certificazioni mediche in atti, così come non è stata ammessa una consulenza tecnica d’ufficio che avrebbe potuto consentire di valutare le limitazioni fisiche accertate dal medico aziendale (mettendole a confronto con le contrarie risultanze della perizia di parte).
La decisione, sul punto, sembra essere fondata unicamente sulla contestazione della valutazione del medico competente da parte del lavoratore licenziato e sulla conseguente mancata prova della fondatezza di detta valutazione da parte dell’ex datore di lavoro.
In definitiva, una pronunzia fondata sul principio di non contestazione dei fatti e dei documenti acquisiti in giudizio, sancito dall’art. 115 cod. proc. civ., che invece – ad avviso di chi scrive – avrebbe richiesto una maggior ponderazione nell’attribuire preminenza all’attendibilità di un documento medico rispetto ad un altro, proprio per la pari rilevanza di entrambe le certificazioni mediche sotto il profilo probatorio (non si dimentichi, a tal proposito, il ruolo di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio – nonché, in ogni caso, di esercente un servizio di pubblica utilità – ricoperto dal medico competente).
Quanto sopra è tanto più vero, tenuto conto dell’esistenza di un rimedio stragiudiziale (qui ignorato) di contestazione dei giudizi espressi dal medico competente, previsto dall’art. 41, nono comma, d.lgs. 81/2008, il quale disciplina l’impugnabilità di detti giudizi davanti “all’organo di vigilanza territorialmente competente che dispone, dopo eventuali ulteriori accertamenti, la conferma, la modifica o la revoca del giudizio stesso”. Pur trattandosi di un rimedio eventuale, la valutazione sull’omessa iniziativa stragiudiziale del lavoratore (che l’ordinamento non prevede senza una ragione) avrebbe potuto rappresentare un elemento a cui attribuire rilevanza nella motivazione della sentenza in commento, in un quadro processuale in cui l’aspetto “sostanziale” avrebbe certamente meritato approfondimenti ad iniziativa dei giudici d’appello.

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