A cura di Leonardo Calella
Secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte inaugurato dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 12568/2018: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, co. 2, c.c.” (cfr. Cass. n. 11174/2023; Cass. n. 36188/2022; Cass. n. 31763/2018).
In tale indirizzo interpretativo, si è inserita l’ordinanza n. 10640 del 19 aprile 2024, nella quale la Corte di Cassazione ha giudicato illegittimo il licenziamento del dipendente che continuativamente assente per malattia aveva determinato disagi nella corretta gestione delle attività aziendali.
Questi i fatti. A fronte dei disagi organizzativi patiti, l’azienda ha intimato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo al lavoratore assente per malattia per 123 giornate, nell’arco di 2 anni, sistematicamente agganciate ad altri periodi di riposo.
Il dipendente ha adito l’Autorità Giudiziaria, la quale sia in primo grado sia nel giudizio di appello ha ritenuto che il licenziamento fosse stato intimato in violazione del periodo di conservazione del posto di lavoro garantito dall’art. 2110 cod. civ.. Per l’effetto, è stato riconosciuto al dipendente il diritto alla reintegrazione in servizio con contestuale condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria.
Avverso la sentenza di secondo grado, l’azienda ha interposto ricorso in Cassazione lamentando come il recesso – configurando l’ipotesi del licenziamento per eccessiva morbilità – fosse giustificato dall’impossibilità di utilizzare utilmente la prestazione lavorativa del dipendente.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda giudicando che non possa considerarsi decisiva la natura disciplinare o oggettiva del licenziamento dichiarata dal datore di lavoro bensì l’effettiva corrispondenza del titolo attribuito al licenziamento ai motivi sui quali si fonda il recesso.
L’ordinanza, da una parte, si è soffermata sulla distinzione tra il licenziamento motivato dall’inesatto adempimento della prestazione lavorativa – da considerarsi ontologicamente disciplinare – e il recesso che, invece, attiene alle ragioni organizzative (ad esempio soppressione di un’area produttiva o di business) o a circostanze oggettive tecnico-organizzative idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione ed estranee alla sfera volitiva del lavoratore stesso (ad esempio sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, carcerazione o ritiro della patente).
Dall’altra parte, la Suprema Corte ha ritenuto che, nella specie, il licenziamento, benché intimato nell’ambito del giustificato motivo oggettivo, fosse in concreto motivato dalle assenze per malattia del dipendente, ed ha, perciò, confermato l’applicabilità dell’art. 2110 cod. civ..
La Corte ha ricordato che tale disposizione codicistica mira a garantire al dipendente la conservazione del posto di lavoro sino all’esaurimento del periodo di comporto, a prescindere che le assenze siano frazionate o continuative nel tempo, e, dal punto di vista applicativo, prevale sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali.
In applicazione dell’art. 2110 cod. civ. il licenziamento intimato prima che sia esaurito il periodo di comporto è viziato da nullità per contrasto con norma imperativa dell’ordinamento. Una volta superato il periodo di comporto, il datore di lavoro può, invece, intimare il licenziamento senza che sia necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse.
Se è vero che l’ordinanza in commento sembra recidere definitivamente l’ammissibilità del licenziamento per eccessiva morbilità, è altrettanto vero che non arriva ad escludere la configurabilità del recesso per scarso rendimento ove sia ravvisabile, come osservato tradizionalmente dalla Suprema Corte, una significativa difformità tra quanto richiesto dal diligente adempimento degli obiettivi fissati per la prestazione lavorativa e l’effettivo apporto del dipendente, avuto riguardo a dati globali elaborati rispetto ad una media di attività tra i vari dipendenti dell’azienda (cfr. Cass. n. 3876/2006 richiamata anche da Cass. n. 18678/2014 e Cass. n. 2291/2013).