Obbligo di repêchage e formazione del lavoratore

Obbligo di repêchage e formazione del lavoratore

A cura di Ilaria Pitingolo

La Cassazione torna ad occuparsi del repêchage: tema sempre attuale e oggetto di un vivace e continuo dibattito circa l’ampiezza, la natura e l’estensione del suddetto obbligo. In particolare, la Corte torna ad occuparsi del tema con l’ordinanza n. 10627 del 19 aprile 2024 nella quale affronta la portata dell’obbligo in rapporto con eventuali oneri di formazione e riqualificazione del personale. Il caso trae origine dal ricorso promosso da un dipendente il quale veniva licenziato a seguito di una riorganizzazione aziendale dovuta al forte calo di attività (e di fatturato) della società che avevano determinato, tra le altre cose, la riduzione degli operai addetti al reparto calzoleria (tra cui, appunto, il ricorrente). La legittimità del licenziamento era stata confermata in sede di appello, dove – in riforma della sentenza di primo grado – la Corte territoriale aveva ravvisato la sussistenza delle ragioni organizzative e produttive che avevano giustificato il provvedimento espulsivo, l’inesistenza di profili di discriminatorietà e, infine, l’esatto adempimento dell’obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro. Tale sentenza veniva impugnata dal lavoratore soccombente davanti alla Corte di Cassazione. Investita così della questione, la Corte ha precisato che, anche nella vigenza dell’art. 2103 c.c. così come novellato dal Jobs Act, il repêchage opera esclusivamente nell’alveo della fungibilità delle mansioni in concreto attribuibili al lavoratore. Il datore di lavoro, pertanto, non ha alcun obbligo di provvedere alla formazione finalizzata alla ricollocazione del dipendente. Nel fissare tale principio, essa ha tenuto conto che, nella verifica circa l’esistenza di posizioni vacanti, non è consentito considerare quelle che non siano in alcun modo riferibili alla professionalità del singolo lavoratore. Nel caso di specie, peraltro, l’unica posizione che poteva essere presa in considerazione riguardava un’assunzione a tempo determinato per mansioni di “addetto al web” rientranti in una categoria professionale (impiegatizia) diversa da quella posseduta dal lavoratore (operaia) e implicanti, all’evidenza, competenze del tutto differenti dal bagaglio formativo e professionale del lavoratore stesso. La Corte delinea dunque una distinzione tra l’operatività dell’art. 2103 c.c. in tema di ius variandi e quella dell’obbligo di repêchage escludendo, in particolare, che il datore di lavoro, nell’assolvimento del repêchage, sia tenuto a provvedere alla riqualificazione del lavoratore. E ciò in applicazione di quel necessario bilanciamento tra interessi costituzionalmente protetti riassunto nel principio, più volte espresso, per cui l’obbligo di repêchage deve trovare un limite nella ragionevolezza dell’operazione e non deve comportare rilevanti modifiche organizzative, ampliamenti di organico o innovazioni strutturali non volute dall’imprenditore

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