A cura di Enrico Vella
Lo scorso 17 maggio è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (serie L 132) la preannunciata Direttiva (UE) 2023/970 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 10 maggio 2023, contenente prescrizioni minime per i datori di lavoro del settore pubblico e privato, volte a rafforzare, nell’ambiente di lavoro, l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva ed i relativi meccanismi di applicazione. Con questa nuova disciplina, il Legislatore europeo ha voluto dare un rinnovato impulso alla tutela del diritto alla parità tra donne e uomini quale valore fondamentale dell’Unione, continuando a percorrere la strada già segnata anni addietro dal Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che pone l’obbligo per ciascuno Stato membro di assicurare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile che svolgono uno stesso lavoro o un lavoro di pari valore, considerandolo come una declinazione del più ampio principio della pari opportunità.
Trattasi di principi fondamentali richiamati anche dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che, proprio sull’argomento, stabilisce all’articolo 23 che ogni individuo, senza discriminazione, ha diritto ad eguale retribuzione per eguale lavoro, alla libera scelta dell’impiego, a giuste e soddisfacenti condizioni di lavoro e a una retribuzione equa che assicuri un’esistenza conforme alla dignità umana.
Tale principio cardine lo troviamo declinato nella Direttiva 2006/54/CE del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego, ratificata nel nostro Ordinamento con il D.Lgs. 25 gennaio 2010 n. 5.
Proprio da una valutazione delle citate norme del 2006 (si legge nelle premesse della Direttiva) è emerso che l’applicazione del principio della parità di retribuzione è “ostacolata da una mancanza di trasparenza nei sistemi retributivi, da una mancanza di certezza giuridica sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali incontrati dalle vittime di discriminazione. I lavoratori non dispongono delle informazioni necessarie per presentare un ricorso in materia di parità di retribuzione che abbia buone possibilità di successo e, in particolare, delle informazioni sui livelli retributivi delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. Dalla relazione è emerso che una maggiore trasparenza consentirebbe di rivelare pregiudizi e discriminazioni di genere nelle strutture retributive di un’impresa o di un’organizzazione. Consentirebbe inoltre ai lavoratori, ai datori di lavoro e alle parti sociali di intervenire adeguatamente per garantire l’applicazione del diritto alla parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (“diritto alla parità di retribuzione”).”
Con la Direttiva in commento, che interviene dopo il periodo pandemico, l’Unione ha ritenuto necessario rafforzare, tramite nuove e specifiche misure, i principi fondamentali già espressi, dando atto del fatto che è incontrovertibilmente evidente il divario retributivo tra uomini e donne.
Pertanto, in sintesi, si ritiene che la lotta alle disuguaglianze nel contesto lavorativo imponga l’adozione di prescrizioni minime che garantiscano il rispetto di specifici obblighi di trasparenza retributiva, capaci di far emergere ed individuare forme di discriminazione, che, altrimenti, rimarrebbero celate, e nel contempo tutelare le vittime, ossia il lavoratore nella sua più ampia accezione ed a prescindere dalla qualificazione giuridica data dalle parti, inclusi i candidati ad un impiego.
Ed è proprio su questa categoria di soggetti che la Direttiva, in primo luogo, si concentra, evidenziando così la centralità della fase pre-assuntiva. Il Legislatore, infatti, è consapevole che la mancanza di informazioni sull’aspetto retributivo crea un’asimmetria informativa che limita il potere contrattuale dei candidati.
La garanzia della trasparenza consente ai potenziali lavoratori di valutare in modo informato, prima del colloquio, quanto meno la fascia della retribuzione prevista per quella data posizione, senza tuttavia escludere la libertà delle parti di negoziare una retribuzione diversa.
E così, la Direttiva ritiene fondamentale che i candidati ad un impiego devono essere messi nelle condizioni di ricevere informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla relativa fascia, prima del colloquio di lavoro o quantomeno prima dell’inizio del rapporto di lavoro, in modo che possano svolgere una trattativa informata e trasparente su tutte le condizioni assuntive.
Ne consegue che la trasparenza precontrattuale obbliga il datore di lavoro a valutare per ogni profilo professionale un range retributivo, non discriminatorio sotto il profilo del genere, in linea con le effettive competenze ed esperienze richieste, prima del confronto pre-assuntivo, evitando forme di discriminazioni e disuguaglianze sulla base di motivi acquisiti nel corso del colloquio.
Pertanto, l’art. 5 della Direttiva prescrive il diritto dei candidati ad un impiego di ricevere, dal potenziale datore di lavoro, informazioni sulla retribuzione iniziale o sulla relativa fascia da attribuire alla posizione ricercata (da definirsi sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere) e, se del caso, sulle pertinenti disposizioni del contratto collettivo applicate dal datore di lavoro in relazione alla posizione ricercata.
Non solo. La selezione del candidato non può essere influenzata dalla valutazione del pregresso livello retributivo, per cui, è fatto divieto ai datori di lavoro di richiedere, o in altro modo acquisire, dal candidato informazioni in merito alle retribuzioni percepite, attualmente o in precedenti impieghi.
Tutto l’iter selettivo, pertanto, deve essere ispirato ai principi di non discriminazione, così da non compromettere il diritto alla parità di retribuzione per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore («diritto alla parità di retribuzione»). In questo contesto, la Direttiva si concentra su due profili giuridici centrali, ossia quello di “retribuzione” e quello di “lavoro di pari valore”.
Per quanto riguarda il primo, viene preso in considerazione il concetto di retribuzione nella sua ampia accezione, ossia qualsivoglia vantaggio, diretto o indiretto, in danaro o in natura, riconosciuto dal datore di lavoro in ragione del proprio impiego, incluse le componenti complementari e variabili, come i bonus, le indennità per gli straordinari, i servizi di trasporto, le indennità per vitto ed alloggio, le compensazioni per la partecipazione a corsi di formazione, oltre a quei trattamenti aggiuntivi riconosciuti per prassi.
Il concetto retributivo viene espresso in “retribuzione lorda annua” e definito come “il salario o lo stipendio normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore (componenti complementari o variabili) a motivo dell’impiego di quest’ultimo”.
Si concretizza un “divario retributivo di genere” quando vi è differenza tra i livelli retributivi medi corrisposti da un datore di lavoro ai lavoratori di sesso femminile e a quelli di sesso maschile, espressa in percentuale del livello retributivo medio dei lavoratori di sesso maschile. Il secondo concetto attenzionato è quello del “valore del lavoro”. A tal proposito, il Legislatore ritiene che il lavoro dovrebbe essere valutato sulla base di criteri oggettivi, fra cui troviamo i requisiti professionali e in materia di istruzione e formazione, le competenze, l’impegno, le responsabilità e le condizioni di lavoro, indipendentemente dalle differenze nei ritmi di lavoro.
Sono ritenuti essenziali per valutare i compiti svolti le competenze, l’impegno, le responsabilità e le condizioni di lavoro, che devono essere ponderati dal datore di lavoro in funzione della pertinenza di tali criteri per il lavoro o la posizione in questione.
Pertanto, la Direttiva, sul punto, invita i datori di lavoro a definire un criterio oggettivo ed un parametro certo con cui determinare se il lavoro di un lavoratore possa essere considerato di pari valore di quello di un altro.
Nel concreto, per consentire un raffronto tra i diversi impieghi, gli Stati membri dovranno, ai sensi dell’art. 4 della Direttiva, introdurre strumenti o metodologie di analisi, accessibili dai datori di lavoro ed alle parti sociali, in modo da poter valutare e classificare professionalmente in modo neutro i lavoratori e le lavoratrici evitando forme di discriminazione basate sul sesso.
In questo modo, il lavoratore o la lavoratrice che ritiene di essere discriminato potrà dimostrare di essere stato trattato meno favorevolmente rispetto a un omologo di sesso diverso che svolge lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore, avvalendosi di un riferimento ipotetico chiaro e conoscibile.
Per le aziende con più di 50 dipendenti, la trasparenza viene imposta anche attraverso obblighi informativi, anche nel corso del rapporto di lavoro.
Infatti, l’art. 6 della Direttiva prescrive a carico di detti specifici datori di lavoro l’obbligo di rendere facilmente accessibili i criteri utilizzati per determinare la retribuzione, i livelli retributivi e la progressione di carriera e retributiva nel tempo e, infine, i processi attraverso i quali un lavoratore passa ad un livello di retribuzione più alto. Ai sensi dell’art. 7 della Direttiva, il lavoratore acquisisce così un diritto di informazione, anche tramite le OO.SS. o un organismo di parità, consistente nel diritto di richiedere e di ricevere per iscritto informazioni sul proprio livello retributivo individuale e sui livelli retributivi medi, ripartiti per sesso, delle categorie di lavoratori che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore.
La circolazione delle informazioni deve essere libera, a tal punto che il datore di lavoro, nel corso del rapporto, non può imporre al lavoratore il divieto di non rendere pubblica la propria retribuzione.
Proprio per consentire il monitoraggio delle retribuzioni, vengono prescritti a carico dei datori di lavoro che hanno più di 100 dipendenti, periodici obblighi di comunicazione in merito al divario retributivo, da condividere con le OO.SS., dati che devono essere comunicati all’organismo di parità e, su base volontaria, resi pubblici sul portale internet aziendale. Nel caso in cui le informazioni sulle retribuzioni rivelino una differenza del livello retributivo medio tra lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile pari ad almeno il 5 %, in una qualsiasi categoria di lavoratori, ed il datore di lavoro non motivi adeguatamente la differenza di livello retributivo medio sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere, e non abbia corretto tale differenza immotivata di livello retributivo medio entro sei mesi dalla data della comunicazione delle informazioni sulle retribuzioni, è previsto l’obbligo di effettuare una valutazione congiunta con le OO.SS. che comporta lo svolgimento di una serie di attività finalizzate a far emergere le ragioni di tali differenze e adottare, entro un termine ragionevole, un piano d’azione per eliminare le discrepanze riscontrate e ridurre eventuali divari retributivi immotivati. La Direttiva dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 7 giugno 2026, ma, vista la particolare importanza del tema, probabilmente, alcune realtà imprenditoriali più virtuose penseranno già oggi di introdurre correttivi e procedure (come per esempio il monitoraggio retributivo), in modo da essere al passo con i tempi, in un mondo del lavoro in continua evoluzione.