Pilota licenziato perché si era addormentato durante il volo: il giudice ne dispone la reintegrazione

Pilota licenziato perché si era addormentato durante il volo: il giudice ne dispone la reintegrazione

A cura di Marina Olgiati

Ha destato scalpore la notizia, diffusa dalla stampa nei giorni scorsi, riguardante la reintegrazione nel posto di lavoro di un pilota di ITA Airways, che era stato licenziato per essersi addormentato durante il volo da New York a Roma Fiumicino. Si apprende dalla sentenza del Tribunale di Roma, che ha deciso il caso (sentenza n. 7480 del 18 settembre 2023), che durante la crociera, in orario notturno, il comandante responsabile dell’aeromobile non aveva risposto alle chiamate radio del centro di controllo del traffico aereo francese, nel momento in cui l’aeromobile attraversava il settore di rete tra Bordeaux e Marsiglia. I tentativi del centro di controllo di ripristinare la comunicazione non avevano dato esiti. Solo dopo circa mezz’ora il comandante aveva ristabilito il contatto e risposto ai messaggi inviati dal centro di controllo.
Come si legge nella lettera di licenziamento – riportata in sentenza – nel periodo di mancato collegamento si era creata una situazione di allarme e di pericolo per la sicurezza del volo e dei passeggeri.
Le indagini interne condotte dalla Compagnia aerea avevano evidenziato che l’accaduto era conseguenza della negligente applicazione delle procedure operative da parte del comandante. In aggiunta, il medesimo comandante aveva indicato sul quaderno tecnico di bordo una presunta avaria della cuffia, che era risultata, invece, perfettamente funzionante. Di fronte a tali dati oggettivi e gravissimi, il comandante non era riuscito a fornire, a sua discolpa, alcun elemento giustificativo della condotta tenuta.
Essendo palese il venire meno della fiducia, in considerazione della gravità dei fatti e del ruolo di responsabilità affidato all’ufficiale, era inevitabile per la Compagnia l’applicazione della sanzione espulsiva.
Il Tribunale di Roma, senza entrare nel merito della vicenda, ha ritenuto che, nel caso, non fossero state adottate le garanzie previste dall’art. 7 della Statuto dei lavoratori e, dichiarata la nullità del licenziamento, ha disposto la reintegrazione nel posto di lavoro del comandante, ai sensi dell’art. 2, co. 1 e 2, del D. Lgs. n. 23/2015. Per quanto possa apparire sorprendente (il datore di lavoro coinvolto nella vicenda è la nostra Compagnia di bandiera), ITA Airways, nella fattispecie, aveva intimato il licenziamento senza la previa contestazione disciplinare scritta. Risulta, invero, che i fatti erano stati contestati al comandante solo verbalmente, nel corso di una serie di incontri, alla presenza di funzionari e ufficiali, durante i quali il medesimo comandante aveva potuto esporre le sue controdeduzioni.
Il Tribunale di Roma, richiamati i noti principi afferenti alla necessità della contestazione per iscritto rispetto a sanzioni più gravi del rimprovero verbale e della non sostituibilità della forma scritta con altre forme di conoscenza dei fatti addebitati, (la forma scritta – ricorda il Tribunale – integra un requisito formale prescritto al fine di rendere certo ed immutabile il contenuto della contestazione, dalla cui ricezione decorre il termine a difesa per il lavoratore), ha deciso la causa richiamando l’indirizzo della Corte di Cassazione (Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745; Cass. 24 febbraio 2020, n. 4879), secondo il quale l’assoluto difetto di contestazione dell’addebito comporta l’inesistenza dell’intero procedimento disciplinare e non solo l’inosservanza delle norme che lo disciplinano e determina, pertanto, l’illegittimità del provvedimento espulsivo e non un mero vizio procedurale: in sostanza, per i Giudici di legittimità non è possibile ricondurre il difetto di contestazione al semplice vizio procedurale, perché questo postula che il procedimento sia stato avviato.
Le decisioni della Cassazione sopra citate hanno riguardato due casi di licenziamento in regime di art. 18, Stat. Lav. In entrambi i casi, la Corte ha affermato il principio per cui l’assenza della contestazione non è sanzionabile con la sola indennità risarcitoria di cui al comma 6 dell’art. 18, perché è equivalente al difetto assoluto di giustificazione del licenziamento; fattispecie questa per la quale il medesimo comma 6 dispone che si applichi la tutela reintegratoria attenuata (comma 4). Questa forma di tutela, come noto, attiene al caso di licenziamento illegittimo per “insussistenza del fatto contestato”, ipotesi nella quale viene, dunque, fatta rientrare la mancanza della contestazione (Cass. n. 4879/2020).
L’indirizzo delle Corti di merito si pone anch’esso nel solco della giurisprudenza sopra esaminata (tra le altre, App. Torino, 12 gennaio 2022, n. 612; Trib. Avellino, 4 maggio 2022, n. 406; Trib. Sassari, 6 luglio 2021, n. 301; App. Milano, 29 novembre 2019, n. 1494). Il Tribunale capitolino, che ha giudicato in ambito di tutele crescenti, ha, tuttavia, ritenuto non l’illegittimità, bensì la nullità del licenziamento per violazione di norma imperativa, ponendo così a fondamento della sua decisione i principi in tema di nullità dei contratti, applicabili, ex art. 1324 cod. civ., anche agli atti unilaterali, quale è l’atto di recesso datoriale.
Pertanto, il Tribunale si è spinto oltre le conclusioni della Corte di Cassazione, adottando una conclusione finanche più rigorosa e criticabile. Invero, il Tribunale, volendo adeguarsi all’orientamento della Cassazione dal medesimo richiamato, avrebbe dovuto giudicare partendo dall’esame dell’art. 4 del Jobs Act, che, similmente all’art. 18, co. 6, stabilisce sanzioni indennitarie per i vizi procedurali, a meno che il Giudice accerti “la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente decreto” (nell’art. 18, co. 6, si prevede: “…a meno che il Giudice accerti il difetto di giustificazione del licenziamento”). Conseguentemente – in aderenza all’indirizzo invocato – il medesimo Tribunale avrebbe dovuto applicare l’art. 3, co. 2, del D. Lgs. n. 23, norma omologa al comma 4 dell’art. 18: entrambe le norme prevedono, infatti, che il Giudice, nel caso di insussistenza del fatto, annulli il licenziamento e disponga la reintegrazione, con condanna al risarcimento nella misura massima di dodici mensilità di retribuzione.
Richiamando, invece, l’art. 2, del D. Lgs. n. 23, il Giudice romano ha ravvisato nella fattispecie esaminata la più grave ipotesi del licenziamento nullo, a cui conseguono anche le più gravi conseguenze ad essa connesse (reintegrazione, con pagamento di tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamento fino alla reintegrazione, con il minimo di cinque mensilità e senza alcun limite massimo).
Ebbene, ci sia consentito osservare che, così ragionando, il Tribunale ha fatto discendere dall’annullamento del licenziamento, per un vizio che, comunque, attiene pur sempre ad un aspetto della procedura, effetti più gravi di quelli che si verificherebbero in caso di accertato vizio sostanziale del licenziamento, costituito dall’inesistenza del fatto.

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