
A cura di Orazio Marano
Con una recente ordinanza (la n. 26588 del 14 settembre 2023), la Suprema Corte ha affermato che, in tema di appalto irregolare, sussiste la legittimazione degli enti previdenziali a proporre un’azione finalizzata a fare accertare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra committente e dipendente dell’appaltatore.
Nel caso di specie, la società committente impugnava dinanzi al Tribunale alcune cartelle esattoriali con cui l’I.N.P.S. aveva richiesto alla stessa il versamento di contribuzione relativa ai dipendenti di alcune aziende appaltatrici, le quali avevano dato esecuzione con detta committente ad appalti la cui “genuinità” era stata contestata dall’Istituto previdenziale in sede di ispezione.
L’I.N.P.S. aveva quindi imputato i rapporti di lavoro in questione alla società ricorrente, sul presupposto dell’accertata irregolarità dei summenzionati contratti d’appalto. La Corte d’Appello, in riforma della sentenza del Tribunale, accoglieva il ricorso dell’azienda committente, ritenendo solo il lavoratore (e non anche l’I.N.P.S.) legittimato a chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di chi abbia – nei fatti – utilizzato la prestazione lavorativa. Quanto sopra, sul presupposto che l’art. 29, comma 3 bis, del d.lgs. n. 276 del 2003 disciplinerebbe un’azione costitutiva con legittimazione esclusiva del lavoratore interessato, in tal senso segnando una discontinuità con l’art. 1, comma 5, della legge n. 1369 del 1960, che consentiva un’azione di accertamento – per la quale i lavoratori venivano considerati a tutti gli effetti alle dipendenze dell’utilizzatore – proponibile da chiunque avesse interesse. Da questa prospettiva deriverebbe che, nell’attuale disciplina, terzi quali gli enti previdenziali ed assistenziali che chiedessero rispettivamente contributi o premi all’utilizzatore effettivo del lavoratore (in quanto reale datore di lavoro), potrebbero sentirsi opporre la mancata costituzione del rapporto in difetto di azione giudiziale promossa da quest’ultimo.
Con l’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione – nel ribaltare la pronuncia dei giudici d’appello e in accoglimento, quindi, del ricorso proposto dall’I.N.P.S. – ha affermato che, in tema di omesso versamento dei contributi previdenziali in un appalto illecito, l’ente previdenziale può agire direttamente, senza che sia necessaria la previa azione del prestatore di lavoro interessato, volta all’accertamento dell’interposizione fittizia e alla costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore. Secondo i giudici di legittimità (il cui orientamento pare essere consolidato, stante altre precedenti pronunzie conformi: cfr. Cass. 28 novembre 2019, n. 31144; Cass. 15 maggio 2019, n. 13013), l’accertamento della natura fittizia del rapporto di lavoro con l’appaltatore (il datore di lavoro c.d. interposto), da cui discende il potere dell’ente previdenziale di applicare le relative sanzioni, costituisce oggetto di questione pregiudiziale, di cui il giudice può conoscere in via incidentale nell’ambito di un giudizio avente ad oggetto la richiesta di accertamento di un diritto (quello appunto dell’I.N.P.S. di ottenere il versamento dei contributi dal datore di lavoro effettivo, il cui presupposto è la verifica giudiziale dell’irregolarità dell’appalto).
A favore di queste conclusioni, riferisce la Suprema Corte, depongono – da un lato – l’indisponibilità del regime previdenziale (che non può essere subordinato all’iniziativa del lavoratore che denunci l’irregolarità di un rapporto di lavoro: cfr., sul punto, Cass. n. 13650 del 2019) e – dall’altro lato – l’autonomia di detto rapporto e di quello previdenziale, che – per quanto tra loro connessi – rimangono comunque distinti (cfr., tra le tante, Cass. n. 5353 del 2004; Cass. n. 6673 e n. 15979 del 2003).
Invero, affermano i giudici di legittimità, l’azione dell’ente previdenziale terzo è finalizzata all’accertamento della sussistenza in fatto di un rapporto di lavoro subordinato tra l’utilizzatore e il lavoratore e trova la sua causa petendi nell’art. 2094 c.c. e non nel d.lgs. n. 276 del 2003, anche perché la formula utilizzata da detto decreto legislativo – lungi dal configurare una sanzione strutturalmente diversa da quella di cui alla precedente normativa in materia di interposizione illecita di manodopera (legge n. 1369 del 1960) – rappresenta una diversa descrizione del medesimo meccanismo sanzionatorio: si tratta di una norma tipicamente processuale formulata con riferimento alla posizione del lavoratore, che non preclude che sia fatta valere ad opera di tutti gli interessati, stante la ritenuta persistenza della nullità degli atti interpositori (cfr., sul punto, Cass. n. 18278 del 2019). Il suesposto orientamento giurisprudenziale (di favore nei confronti degli enti previdenziali) non è, ad avviso di chi scrive, scevro da rilievi critici, tenuto conto anzitutto dei diversi presupposti e fatti costitutivi che caratterizzano gli artt. 2094 c.c. e 29, commi 1 e 3-bis, del d.lgs. n. 276/2003: la disposizione codicistica è, infatti, volta a verificare l’esercizio – da parte del committente – dei poteri di organizzazione e direzione della prestazione lavorativa, mentre la seconda è finalizzata all’accertamento dell’insussistenza dei requisiti di legittimità dell’appalto, costituiti – ai sensi dell’art. 29, comma 1, d.lgs. n. 276/2003 – dalla “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore” e dalla “assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”. Alla luce di detto rilievo, l’azione ex art. 2094 c.c. non consente di accertare l’insussistenza del potere organizzativo in capo all’appaltatore nei (non rari) casi in cui l’ingerenza del committente nell’esecuzione del contratto e nell’organizzazione dei fattori produttivi (compresa la forza lavoro) sia esercitata nei confronti dell’appaltatore medesimo o di un suo referente, senza rapporti diretti con il personale adibito all’appalto. Parimenti, detta azione non consente di verificare l’insussistenza del potere organizzativo dell’appaltatore con riferimento ai servizi nel cui ambito rilevano in modo determinante fattori produttivi ulteriori rispetto alla forza lavoro, così come non consente alcun accertamento in relazione all’assunzione del rischio di impresa in capo all’appaltatore medesimo. A ciò si aggiunga che il d.lgs. n. 276/2003 (a differenza della previgente disciplina) dispone, in caso di contestazione del contratto di appalto e relativa domanda di costituzione del rapporto di lavoro in capo al committente, la salvezza (e correlata imputazione al committente) degli atti di gestione del rapporto adottati dall’appaltatore, escludendo così ogni nullità degli atti interpositori (che invece, come sopra visto, la Suprema Corte invoca al fine di legittimare l’iniziativa degli enti previdenziali).
Peraltro, l’ipotetica nullità di detti atti non incide comunque sull’autonomia del rapporto di lavoro e di quello previdenziale, in quanto l’intermediazione di manodopera non determina di per sé irregolarità contributive e l’ente previdenziale può sempre procedere alla riscossione dei contributi invocando la responsabilità solidale del committente.