
A cura di Francesco Torniamenti
Sempre più di frequente la giurisprudenza si confronta con ipotesi di licenziamenti, intimati a seguito di episodi di molestie, verificatisi sul luogo di lavoro. Il lavoratore ricorrente argomenta la propria difesa, sostenendo che la condotta contestata sia riconducibile ad una “avance”, evidentemente non gradita, ma certamente non motivata dall’intenzione di porre in essere un atteggiamento molesto, o addirittura violento, ragione per cui il provvedimento espulsivo è sproporzionato e illegittimo.
Ma, dunque, quando una condotta di un lavoratore è tale da ledere la dignità del / della collega diventando molesta e giustificando, quindi, l’irrogazione del licenziamento?
Sul punto la Cassazione, in una recente pronuncia (Cass. 31 luglio 2023, n. 23295) – avente ad oggetto il licenziamento di un lavoratore che aveva rivolto alla collega epiteti di natura sessuale (comunicando alla stessa, in modo scurrile, la sua intenzione di avere con lei un rapporto carnale) – ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Firenze che, a sua volta, aveva dichiarato la legittimità del licenziamento affermando che tale condotta integrava la fattispecie di “molestia sessuale” ex art. 26, comma 2 D.lgs. n. 198/2006.
In particolare, la Corte di merito aveva ritenuto sussistente la molestia sessuale considerando all’uopo irrilevante l’assenza di un’aggressione fisica in quanto la molestia si verifica anche solo se il lavoratore proferisca frasi aventi “l’effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”. Quindi, ai fini della configurazione della molestia sessuale, è trascurabile se il lavoratore non intendeva offendere la vittima dell’allusione sessuale (il ricorrente aveva, infatti, affermato di aver proferito “battute scherzose e innocenti”), se in azienda vigesse un clima generalmente scherzoso e fondato su reciproche battute (come era emerso dalla escussione dei testi effettuata in primo grado) oppure se la destinataria della battuta non potesse verosimilmente temere di ricevere un’aggressione fisica. In definitiva, perché potesse essere accertata la molestia sessuale, era sufficiente la prova che il lavoratore avesse tenuto un comportamento non conforme ad un luogo di lavoro ed anche solo astrattamente idoneo a ledere la dignità della collega.
Sempre la Cassazione, ancora più di recente (Cass. 26 settembre 2023, n. 27363), in un caso analogo (un Capo Personale che aveva “invitato” una collega a mostrare il proprio fondoschiena e dato una pacca sul sedere ad altra collega), ha confermato il licenziamento per giusta causa ritenendo tali condotte gravissime poiché idonee a ledere la dignità e la professionalità delle due colleghe suscitando, in loro, imbarazzo e umiliazione. Secondo la giurisprudenza, le molestie sessuali sul luogo di lavoro – incidendo sulla salute e la serenità (anche professionale) del lavoratore – comportano l’obbligo di tutela a carico del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.. Pertanto, il datore di lavoro deve adottare tutti i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, tra i quali rientra certamente il licenziamento dell’autore delle molestie sessuali (cfr. Trib. Tivoli, 14 settembre 2020, in Red. Giuffrè 2020).