dell’Avv. Salvatore Trifirò
- Sul ruolo e sulla funzione del Giudice del Lavoro fra passato presente e futuro: una testimonianza. 2. Gli anni ’50 – ’60 – 3. Gli anni ’70 – 4. Il contesto storico-sociale di quegli anni – 5. Gli anni ’80 – 6. Gli anni ‘90 e 2000 – 7. La specificità del Diritto del Lavoro rispetto al Diritto Civile. – 8. Il ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro nel presente: giustizia sostanziale o processuale? – 9. Altri spunti di riflessione – 10. Conclusione.
1.- Sul ruolo e sulla funzione del Giudice del Lavoro fra passato presente e futuro: una testimonianza. Nel 25° anno dall’entrata in vigore dello Statuto dei lavoratori, ebbi l’onore di essere chiamato dal Primo Presidente della Corte di Cassazione per una relazione nell’Aula Magna della Suprema Corte a Sezioni Unite perché esponessi ai Consiglieri ivi riuniti su come, sulla base della mia esperienza professionale, la funzione del Giudice del Lavoro avesse inciso nell’ambito dell’Impresa. In quella comunità di lavoro, cioè, dove ciascheduno deve operare nel rispetto dei reciproci diritti e doveri per produrre ricchezza per l’intera collettività.
E’ stata la mia, a quel tempo, una testimonianza e tale – partecipando all’odierno dibattito di LDE – vuol essere ancor oggi. A ben vedere, infatti, il Diritto Vivente si forgia nello Studio dell’avvocato al quale l’attore o il convenuto ricorrono per esporre il caso.
Da qui, con il ricorso (la tesi) e con la memoria (l’antitesi) il caso viene sottoposto al Giudice del Lavoro, che pronuncia la sentenza (la sintesi). E così il caso concreto- come già dall’avvocato giuridicamente qualificato in una categoria tipica o atipica – viene dal Giudice deciso nei vari gradi di giudizio (Tribunale, Appello e Cassazione) sino al formarsi, con l’intervento del Supremo Collegio, della massima di diritto.
Quella massima di diritto che sarà utilizzata dall’avvocato quale guida per le Direzioni del Personale per una corretta disciplina del lavoro nell’Impresa; che verrà utilizzata per la disciplina di quei casi simili o analoghi, che via via si presenteranno e che potranno essere ancora una volta sottoposti al Giudice del Lavoro perché il Diritto Vivente possa evolversi nell’ambito del contesto storico sociale di riferimento.
Da rilevare che il Diritto Vivente, di cui alla mia testimonianza, ha costituito in tutti questi anni, nell’ambito giuslavoristico, capisaldi fondamentali: in tema di licenziamenti individuali e collettivi; cassa integrazione; mobilità all’interno dell’azienda; diritto di sciopero; clausole di correttezza e buona fede; rappresentanza sindacale, e così via, per pervenire, ai nostri giorni, al tema dello smart working.
Passo ora a dar conto della mia testimonianza diretta sul ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro quale è stata nel passato fino al presente, nell’attuale contesto storico-sociale, con uno sguardo al futuro affinché la giurisdizione del lavoro venga esercitata al meglio per l’effettiva tutela delle Parti.
Tutto ciò percorrendo la mia esperienza professionale che inizia negli anni ’50 (sembra ieri, ma sono passati 70 anni) al tempo degli accordi interconfederali; prosegue negli anni ’60 al tempo della Legge 15 luglio 1966 n. 604, che introduce la giusta causa del licenziamento; continua negli anni ’70 con l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori: il nuovo Diritto del Lavoro che, sotto la spinta di un’imponente produzione giurisprudenziale, innova profondamente i rapporti sindacali e di lavoro nell’Impresa; prosegue a tutt’oggi all’inizio del terzo millennio nel proliferare di leggi e leggine non sempre coese e spesso di difficile interpretazione.
2.-Segue: gli anni ’50 – ‘60. Il Giudice del Lavoro svolgeva le Sue funzioni decidendo, sostanzialmente, sulla base di atti scritti hinc et inde, in lunghi ordinari processi di cognizione.
All’epoca alla Pretura di Milano (in primo grado, come è noto, la funzione di Giudice del Lavoro era espletata dal Pretore) vi erano 2 Giudici. Divennero 10 quando, nel 1966 venne introdotta la Legge sulla giusta causa del licenziamento. Generalmente i Pretori si adeguavano al principio del “favor lavoratoris”. Tuttavia svolgevano la loro funzione abbastanza imparzialmente fra le Parti.
Le cose cominciarono a cambiare nel 1969: l’anno delle bombe.
Il 25 aprile di quell’ anno alle 19 una bomba scoppiò alla Fiera di Milano nello stand della FIAT. Nello stesso giorno un’altra bomba scoppiò alla Banca Nazionale del Lavoro alla Stazione Centrale di Milano.
Il 12 dicembre, verso le ore 16,00, mentre lavoravo nello Studio dell’avv. prof. Cesare Grassetti – “primus” fra i più grandi avvocati civilisti – giuslavoristi del ‘900[1] – presso il quale collaboravo come Suo “sostituto” (questo era il termine allora di moda), un forte boato fece vibrare intensamente i vetri delle finestre.
Una bomba era esplosa fragorosamente nella vicina Piazza Fontana presso la Sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura: vi furono 16 morti.
Era iniziata la strategia della tensione prodromica agli “anni di piombo” nei quali vennero coinvolti Giudici del Lavoro, Avvocati giuslavoristi, ed io fra questi.
3.- Segue: gli anni ’70. Negli anni ’70 la funzione del Giudice del Lavoro, su imput dell’avvocato, è stata fondamentale per la creazione di quel Diritto del Lavoro Vivente, su cui si innesta quello degli anni successivi, nerbo essenziale per la disciplina del lavoro nell’Impresa.
Nel maggio del 1970 entrò in vigore lo Statuto dei Lavoratori e, nell’agosto del 1973 la riforma del processo del Lavoro.
Lo Statuto, come scrive Romano Canosa – Giudice di primo piano della Sezione del Lavoro della Pretura di Milano (Storia di un Pretore, 1978, Giulio Einaudi Editore Torino, pagg. 36 e segg.) – consentiva interventi più penetranti che nel passato in una situazione di grande conflittualità sociale, all’interno come all’esterno delle fabbriche. Esaudiva anche un desiderio, diffuso fra i Giudici “progressisti”, di incidere in qualche modo sul sociale in funzione riequilibratrice delle ingiustizie e delle storture, che per anni la classe operaia, si asseriva, aveva dovuto subire. Soggiunge Canosa che “l’atteggiamento dei Giudici verso lo Statuto non fu quello di tradizionale distacco e di neutralità tecnica, bensì di piena adesione alle norme che piacevano meno al padronato. Questo, abituato all’atteggiamento tradizionale del Giudice italiano di compiacenza tacita per i potenti e di lentezza nelle decisioni, trovò inconcepibile che questa compiacenza fosse, almeno in certi Uffici, totalmente venuta meno e che cause che duravano, normalmente, anni fossero risolte a suo sfavore in pochi giorni”. In conclusione, come lo stesso Canosa racconta, il ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro “progressista” di quegli anni erano finalizzati a favore della classe operaia (la classe impiegatizia e quella dirigenziale erano considerate filo padronali), che veniva contrapposta al “padronato” senza alcuna distinzione fra i datori di lavoro considerati tutti Padroni nel senso deteriore del termine. Sulla base di questo preconcetto è stata svolta, dal 1970 al 1980, la funzione del Giudice del Lavoro in quegli anni epici e travolgenti, caratterizzati da un clima sindacale incandescente con punte di estremismo terroristico.
All’interno delle Aziende, soprattutto in quelle a partecipazione statale – ad esempio Sit Siemens e Alfa Romeo – impiegati e dirigenti venivano spinti fuori dagli uffici dagli operai vocianti nei corridoi e costretti a marciare tra sberleffi, spinte, calci e minacce dalle frange estremiste dei CUB (Comitati Unitari di Base).
Anche gli avvocati c.d. datoriali subivano quel clima e l’esercizio di quell’attività giurisdizionale “riequilibratrice”. Si andava in udienza al Palazzo di Giustizia e si era in prima linea: davanti ai Pretori progressisti (alias: i “Pretori d’assalto”). Ci si confrontava con gli avvocati dei Sindacati tradizionali (la cosiddetta triplice: CGIL, CISL e UIL) e con gli avvocati di estrema sinistra di “Soccorso Rosso”, che a quei Pretori ricorrevano quotidianamente con richieste di provvedimenti d’urgenza ex art. 700 c.p.c.; con migliaia di ricorrenti che agivano con un unico ricorso; con udienze che venivano fissate ad horas, che si protraevano fino alle ore piccole del mattino e che si concludevano, sempre e comunque, con la soccombenza del datore di lavoro; con provvedimenti abnormi quali, ad esempio, la riapertura di una fabbrica di cui il datore di lavoro aveva disposto la chiusura per obsolescenza dei macchinari.
I Pretori “progressisti”, inoltre, pur dovendo svolgere funzione di Giudici monocratici, si riunivano in improvvisati ed arbitrari Collegi e premevano su altri Giudici, persino sul Pretore Dirigente, per far loro prendere decisioni diverse da quelle che avrebbero prese se non ci fosse stata quella indebita pressione.
Così ancora Romano Canosa: “Il nostro entusiasmo nel triennio 1970/1972 era tale che riuscimmo a influire anche sul Capo della Pretura e lo convincemmo a prendere una decisione che, forse, lasciato a sè stesso non avrebbe mai preso. Si trattava di decidere se reintegrare o meno manu militari un dipendente nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 18 dello Statuto. La causa venne trattenuta dal Consigliere Dirigente all’inizio non molto propenso ad accoglierlo. Dopo numerose riunioni si convinse della bontà del nostro punto di vista. La sentenza da lui firmata, dispose che in caso di rifiuto dell’Azienda a far rientrare il lavoratore ingiustamente licenziato, questi avrebbe potuto presentarsi in fabbrica accompagnato dall’Ufficiale Giudiziario e dai Carabinieri sul posto di lavoro”.
Fu questo il primo art. 18 della storia dello Statuto che fui costretto a discutere davanti a centinaia di operai vocianti con il pugno chiuso. Per la prima volta un dipendente, in questo caso della Sit Siemens, certo Bonora, venne reintegrato fisicamente manu militari sul posto di lavoro. A nulla sono valse le difese della Società che invocava, fra l’altro, il principio di diritto “nemo ad factum cogi potest”. Come si vede dunque dal racconto che precede in quegli anni la funzione del Giudice del Lavoro e l’imparzialità dello stesso venivano inquinate e piegate alla logica politica preconcetta dell’esercizio della giustizia in funzione riequilibratrice delle storture del “sistema capitalistico di produzione”. Sulla base, dunque, delle convinzioni politiche del Giudicante che, nell’ambito della funzione giurisdizionale, non dovrebbero influire sulla decisione. Eppure quei Giudici ritenevano, in buona fede dal loro punto di vista, di muoversi nel giusto e sulla base di un corretto esercizio del loro ruolo e della funzione giurisdizionale.
4.- Segue: il contesto storico sociale di quegli anni. Una mattina, a seguito di un’udienza del giorno prima relativa al licenziamento di un brigatista della Sit Siemens, in cui era stato chiamato come teste Mario Moretti (il componente del nucleo storico delle Brigate Rosse che partecipò al sequestro e all’assassinio dell’ex Presidente del Consiglio dei Ministri Aldo Moro), trovai sotto casa la mia macchina ancora bruciante. Era stata data alle fiamme durante la notte insieme a quella dell’allora Direttore del Personale della Sit Siemens, Dott. Leone.
Furono questi fra i primi attentati delle BR nel Nord Italia. Da lì in avanti fu un’escalation.
I giornali riportavano quotidianamente notizie agghiaccianti di agguati ed attentati. Vittime dapprima Direttori del Personale, giornalisti, sindacalisti e successivamente anche Giudici non allineati. L’uccisione del Commissario Calabresi avvenne la mattina in cui si dava esecuzione al Provvedimento di quel Pretore “progressista” della Pretura di Milano Pietro Federico, che aveva ordinato la riapertura, come sopra ricordato, di una fabbrica chiusa per obsolescenza dei macchinari.
Le udienze si svolgevano affollatissime, spesso con la presenza di aderenti ai CUB, in un clima di intimidazione nei confronti del Legali c.d. “datoriali”. Come ricorda ancora Canosa “la presenza operaia nei corridoi e nelle aule della Sezione Lavoro del Palazzo di Giustizia era una costante di quegli anni. Gli operai arrivavano in massa, alle volte addirittura in corteo, qualche volta anche nei corridoi della Pretura con striscioni e bandiere”.
In un’udienza, trovandomi fisicamente con “le spalle al muro” dietro la stessa scrivania del Pretore Canosa che dirigeva l’udienza, protestai con lo stesso, mentre taluni dei ricorrenti puntavano contro di me la mano con l’indice e il pollice alzato come se fosse una pistola. Mi rispose che dovevo adattarmi ai tempi.
Spesso i testimoni chiamati dalle aziende non potevano presentarsi perché “gambizzati” durante la notte. Il Pretore Bellocchio “progressista” alle 2 circa del mattino nel corso di un’udienza, nella quale difendevo la Pirelli, rivolgendosi al Legale del ricorrente, con eloquente lapsus, ebbe a dirgli: “Ora faccia entrare, per piacere, i nostri testimoni”. Si trattava della causa di dipendente licenziato, supposto brigatista. Lo incalzai ironicamente: “va bene sentiamo i vostri testimoni”. La causa si concluse, ovviamente, con la nullità del licenziamento.
Capi del Personale pagarono con la vita il tentativo di arginare i vandalismi, i sabotaggi in fabbrica, rei di aver licenziato i responsabili. Giudici, ritenuti non allineati pagarono essi stessi con la vita il loro attaccamento al dovere. Io stesso – che reagivo non solo difendendo, ma anche attaccando con ricorsi ex artt. 700 o 414 c.p.c. con richieste di sgombero di aziende occupate e con richieste di risarcimento dei danni a carico delle Rappresentanze Sindacali aziendali – scampai miracolosamente a 2 attentati, dopo che Corso di Porta Vittoria, la via antistante al Palazzo di Giustizia di Milano, era stata tappezzata nottetempo di manifesti nei quali venivo ritratto insieme ai Giudici dell’allora Tribunale di Appello di Milano, come l’avvocato di punta della Confindustria. Significativo, infine, fra i tanti, fu il caso estremo a cui partecipai in Tribunale come avvocato della Società appellante, in una causa che riguardava il licenziamento di alcuni dipendenti della Magneti Marelli aderenti a “Prima Linea”, che si erano assentati dal lavoro per partecipare ad una esercitazione a fuoco sulle colline di Verbania e che il Pretore di Milano “progressista” Giampiero Muntoni aveva reintegrato nel posto di lavoro. In quell’occasione il Palazzo di Giustizia fu invaso da circa un migliaio di persone aderenti alle frange sindacali estremiste. La Polizia (la Celere) dovette intervenire in assetto anti sommossa con il lancio di lacrimogeni nei corridoi del Palazzo. Quando iniziai a parlare le transenne dell’aula del Tribunale – fra i “buuu” minacciosi dei sostenitori degli appellati – vennero travolte. I Giudici si rifugiarono in Camera di Consiglio. Io li seguii mentre tutto intorno proseguiva la guerriglia.
Un avvocato di “Soccorso Rosso”, l’avv. Medina, si presentò sanguinante. Dopo qualche ora, quando la situazione si avviò ad una apparente normalità, l’udienza poté proseguire in un’altra aula del Tribunale. La sentenza di primo grado venne riformata e venne confermata la legittimità dei licenziamenti.
Questo era il clima dei cosiddetti “anni di piombo”, nei quali il ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro era espletata dai Giudici “progressisti” in funzione e a favore della classe operaia, mentre il Giudice del Lavoro in sede di appello svolgeva la sua funzione scevro da preconcetti riformando nella maggior parte dei casi le sentenze di primo grado.
In quegli anni, peraltro, si sono affermati importanti principi di Diritto Vivente in tema, ad esempio, di “sciopero diritto” e agitazioni sindacali illegittime; impossibilità parziale o definitiva della prestazione lavorativa (con le relative conseguenze sulla retribuzione nell’ipotesi di sciopero a scacchiera o a singhiozzo, ovvero sulla malattia, ovvero sullo svolgimento e risoluzione del rapporto di lavoro etc); di rapporti fra contratti collettivi nazionali e aziendali e disdetta degli stessi; di prassi aziendale e sue implicazioni sui vari istituti del rapporto di lavoro. Insomma su tutta una serie di temi generali, individuali e collettivi del Diritto del Lavoro nell’Impresa in cui il Giudice del Lavoro è chiamato a svolgere un ruolo insostituibile e fondamentale.
5.- Segue: gli anni ‘80. Gli anni ‘80, seppur in un contesto di progressiva riduzione degli episodi di violenza che avevano contrassegnato gli anni ‘70, sono ancora caratterizzati da forti tensioni sociali che, a livello giudiziario, si manifestarono soprattutto in relazione all’utilizzazione della cassa integrazione. Infatti, tale possibile strumento di gestione del rapporto di lavoro, pur previsto dall’ordinamento anche nel periodo precedente (L. n. 164 del 20/5/1975, cui hanno fatto seguito la L. 223 del 23/7/1991 e D. Lgs. n.148 del 14/9/2015), ha trovato all’inizio degli anni ‘80 un forte incremento applicativo all’interno delle aziende. Ciò perché consentiva di affrontare le crisi e le riorganizzazioni aziendali in un modo socialmente meno traumatico di quello rappresentato dai licenziamenti collettivi, con tutti gli evidenti benefici che ne potevano derivare, sia a livello aziendale sia, e forse soprattutto, a livello sociale, visto quanto accaduto nel decennio precedente.
Peraltro, poiché l’intervento della cassa determinava la sospensione dal lavoro e una riduzione della retribuzione per i lavoratori in essa collocati, il sindacalismo autonomo e, a livello locale, anche le parti più estremiste dei Sindacati tradizionali, hanno attaccato, sul piano giudiziario, sotto vari profili, l’applicazione di tale istituto. Qui il Giudice del Lavoro – è emblematico il caso Alfa Romeo – mantenendo l’atteggiamento degli anni ‘70, si è in larga misura schierato a favore di quegli attacchi, giocando un ruolo interpretativo trainante. In particolare, in alcuni casi ha ritenuto illegittimo l’intervento della cassa integrazione con diverse motivazioni. Il Giudice del Lavoro ha avuto un ruolo importante anche sul tema della rappresentatività sindacale, con le prerogative che ne conseguono, riconosciuta in modo ampio anche al di fuori delle Organizzazioni Sindacali tradizionali. Si è inoltre affermato il principio dell’inesistenza di un rapporto gerarchico tra i vari livelli delle Organizzazioni Sindacali, favorendosi così un clima di incertezza anche a fronte di intese sindacali già raggiunte ad altri livelli, generandosi così un imponente contenzioso circa l’applicazione della contrattazione collettiva.
Si è assistito anche allo sviluppo di un’interpretazione estensiva della possibilità di ricorso all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori e del contenuto delle decisioni che potevano essere prese dai Giudici, con conseguenze a volte molto pesanti nei confronti delle aziende coinvolte.
Ancora una volta, dunque, il Giudice del Lavoro, per il ruolo esercitato e la funzione svolta, ha influito significativamente nell’organizzazione e nella vita stessa dell’Impresa.
6.- Segue: gli anni ‘90 e 2000 Qui il Giudice del Lavoro, a seguito dell’entrata in vigore della Legge n.223/91, che ha disciplinato il licenziamento collettivo, ha elaborato una giurisprudenza con criteri restrittivi e non sempre comprensibili sul piano sostanziale, sia per quel che riguarda gli aspetti formali delle procedure che per quanto attiene ai criteri di scelta del personale interessato dai licenziamenti.
In questi anni, peraltro, sono stati affermati importanti principi di diritto, in vicende che ancor oggi, a distanza di trent’ anni tornano alla ribalta. Mi riferisco, in particolare, ai pony express, oggi chiamati riders. Nella celebre causa Mototaxi – Tombolini (Giudice del Lavoro, Dott. Ianiello) nella quale venne ritenuta la natura subordinata del rapporto di lavoro in una fattispecie in cui sembrava sussistessero tutti gli elementi caratterizzanti il rapporto di lavoro autonomo. Da lì si innescò un intenso dibattito pubblico e dottrinario che, come è stato rilevato, “segnò in maniera inequivoca l’inizio stesso della stagione della flessibilità”.
Inoltre, al seguito dell’entrata in vigore della Legge n.428 del 29/12/1990, il Giudice del Lavoro ha elaborato una giurisprudenza che si è ampiamente soffermata anche sul tema dei trasferimenti di rami di azienda, questi ultimi spesso visti come modalità surrettizie per procedere, in sostanza, a licenziamenti. A tale riguardo, si è soprattutto discusso sulla nozione di ramo d’azienda, dando origine a pronunce sovente non aderenti al testo normativo, anche dopo la modificazione del comma 5 dell’art. 2112 cod. civ., introdotta dall’art. 32, comma 1 del D.Lgs. n.276 del 10/9/2003, che definisce espressamente il ramo come articolazione funzionalmente autonoma di un’attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del trasferimento, senza necessità del requisito della preesistenza.
Mi sono limitato ad indicare solo alcuni casi giudiziali, che hanno avuto un ampio e generale impatto sul mondo del lavoro, nei quali l’intervento, a volte creativo, della giurisprudenza ha avuto un ruolo determinante. Tanti altri potrei citarne, soprattutto a partire dagli anni 2000 quando sono intervenute ulteriori importanti riforme legislative. Anche qui, a mero titolo esemplificativo, basti pensare alla giurisprudenza in tema di appalti di servizi e solidarietà (art. 29 D.Lgs. n.276/2003 cit.), di contratti a termine, in particolare per quanto attiene a causali e proroghe (D.Lgs. n.368 del 6/9/2001), di lavoro autonomo e subordinato e contratti a progetto (art. 61 D.Lgs n.276/2003 cit.), di controlli a distanza (D.Lgs. n.151 del 14/9)2015, che ha modificato l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori) e controlli difensivi o con agenzie investigative.
Importantissima è stata poi la giurisprudenza che si è creata prima sulla Legge n. 92 del 28 /6/2012 (cd. legge Fornero) e poi sul D.Lgs. n.151 del 14/9/2015 (cd. Jobs Act) che, tra l’altro, contengono disposizioni volte a limitare la possibilità di applicazione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori in tema di reintegrazione. Parte della giurisprudenza ha, infatti, dato alle nuove norme una lettura restrittiva (si pensi al dibattito sulla definizione di “fatto materiale”, per i licenziamenti disciplinari, e di “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”) contrastante con l’espressa finalità delle stesse.
7.- La specificità del Diritto del Lavoro rispetto al Diritto Civile. C’è (o c’è ancora) una specificità del Diritto del Lavoro rispetto al diritto civile?
Non c’è dubbio che il Diritto del Lavoro abbia una sua propria specificità e autonomia ma è altrettanto indubbio che il Diritto Civile – e prima ancora la nostra Costituzione (artt. 1,2,3,4,36,37,38,39,40) sia alla base del Diritto del Lavoro e ne costituisca linfa vitale. Secondo la mia esperienza non si possono affrontare adeguatamente i temi che si dibattono nell’ambito del Diritto del Lavoro senza una sua solida base civilistica. Così, ad esempio, allorquando si discute di rapporto di lavoro autonomo (art. 2222 e segg. cod. civ) o subordinato (art. 2239 cod. civ.). Ed infatti laddove i rapporti di lavoro autonomo si intersecano con altri i rapporti, ad esempio quello di amministrazione (art. 2380 bis e segg. cod. civ.), laddove si tratti di stipulare un contratto di lavoro (art.1321 e segg. cod. civ.) ovvero di interpretarlo (art. 1362 e segg. cod. civ.); ovvero si discuta del suo adempimento (art. 1453 e segg. cod. civ.); o della sua cessione (art. 1406 e segg. cod. civ.) ovvero della impossibilità sopravvenuta della prestazione dovuta (art. 1462 e segg. cod. civ.) ovvero della eccessiva onerosità del contratto (art. 1462 e segg. cod. civ.); ovvero si discuta dell’abuso del diritto – ancorché nell’ambito della specificità e prevalenza delle norme giuslavoristiche che disciplinano il contratto di lavoro, il suo svolgimento e il suo adempimento fino alla risoluzione – non si può non attingere alla disciplina civilistica il cui utilizzo spesso riesce a far evolvere la disciplina giuslavoristica verso nuovi arresti giurisprudenziali. Non è certo un caso, che grandi avvocati giuslavoristi furono prima ancora avvocati civilisti. Un nome per tutti Lodovico Barassi e da ultimo Cesare Grassetti e Renato Scognamiglio. Scognamiglio fu allievo di Francesco Santoro Passarelli anch’egli grande avvocato civilista e dopo giuslavorista. E come Francesco Santoro Passarelli si cimentò subito nelle “Dottrine generali del Diritto civile“, così Renato Scognamiglio si impose all’attenzione del mondo giuridico scientifico con il “Contributo allo studio del negozio giuridico”.
Il vero è che il rapporto di lavoro è un rapporto di fatto. Laddove la disciplina del relativo contratto si differenzia da quella dei contratti in generale per l’oggetto della prestazione che riguarda le energie fisiche e/o intellettuali che costituiscono la ricchezza di cui la persona umana innatamente dispone. Ne consegue che la relativa disciplina, pur nell’ambito dei principi civilistici generali, resta sempre specifica perché impinge e si estende a tutti gli aspetti della vita socio-economica della persona umana alla cui elevazione, nel rispetto dei principi costituzionali, il corretto esercizio del ruolo e della funzione del Giudice del Lavoro può dare un importante contributo.
8.- Il ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro nel presente: giustizia sostanziale o processuale? Al presente constato che il ruolo e la funzione dei Giudici del Lavoro si svolge con minore frequenza sui grandi, stimolanti temi collettivi del passato anche perché la spinta delle Organizzazioni Sindacali si è molto affievolita. Ruolo e funzioni del Giudice del Lavoro non appaiono caratterizzati da idee politiche preconcette, ma a mio avviso si scontrano con la mancata conoscenza dell’organizzazione e del funzionamento delle Imprese.
Sarebbe, a mio avviso, quanto mai opportuno – guardando anche al futuro – che in fase di preparazione e di tirocinio il Giudice del Lavoro facesse uno stage in un’ Impresa nell’ambito delle Risorse Umane e uno stage anche nello Studio di un avvocato per conoscere le strategie di difesa. Tutto ciò al fine della ricerca non della giustizia formale e processuale, ma della giustizia sostanziale, senza la quale nel mondo del lavoro, che avanza verso rapporti sempre più autonomi e liquidi, il ruolo e la funzione del Giudice del Lavoro rischiano di divenire sempre più evanescenti ed improduttivi ponendosi al di fuori del contesto spazio – temporale di riferimento con altresì il rischio che sia un robot a svolgere, senza alcun ruolo e afflato umano la funzione di Giudice del Lavoro.
Peraltro, ciò che a livello di sintesi penso si possa dire è che, pur con le inevitabili eccezioni, l’inizio del terzo millennio, anche in ragione del progressivo cambio generazionale interno alla magistratura e di un mutato clima socio – politico, ha portato un significativo cambiamento nel ruolo e nella funzione del Giudice del Lavoro. Infatti, pur in un quadro di “favor lavoratoris”, mi sembra si possa dire che vi è meno “partecipazione” del Giudice nell’interpretazione delle norme funzionale alla realizzazione di un risultato predefinito come avveniva negli anni ‘70. Si è invece alla presenza di un ruolo volto a ricercare, sulla base dello studio e della riflessione, la soluzione più ragionevole per la risoluzione dei singoli casi concreti, a partire dalla fase del tentativo di conciliazione. Il che non vuol dire estraniarsi dai problemi dei lavoratori, delle loro famiglie e delle imprese, ma “parteciparvi” in maniera più equilibrata, nel rispetto dei principi costituzionali che restano alla base della comunità del lavoro nell’Impresa.
Al riguardo il Giudice del Lavoro dovrebbe in forza del potere-dovere di cui all’art 421 cod. proc. civ. contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità sostanziale. Ovviamente senza aggiramento di eventuali preclusioni e decadenze processuali già prodottesi a carico delle Parti.
9.- Segue: altri spunti di riflessione: È indispensabile che, nel rispetto del principio del contraddittorio fra le Parti, il Giudice del Lavoro non si arroghi nella gestione del potere-dovere di dirigere l’udienza, il compito di sostituirsi all’avvocato di una delle Parti per contrastare le tesi sostenute dal Legale dell’altra Parte. E’ altresì necessario che anche dal punto di vista formale, venga rispettato il ruolo e la funzione dell’avvocato e – ove il Giudice dovesse ritenere di adottare una diversa soluzione rispetto a quelle prospettate nelle difese delle Parti – gli avvocati dovrebbero essere invitati a discutere sul punto. Ciò anche ad evitare di incorrere nella nullità della relativa sentenza (Cassaz. 7 marzo 2022 n. 70365).
Non vedo, secondo la mia esperienza, un modello del processo da parte del Giudice del Lavoro non rispettoso dei diritti di difesa delle Parti motivato dalla necessità di assicurare la celerità delle decisioni.
Ritengo viceversa dannoso l’appiattirsi del Giudice del Lavoro sulle precedenti decisioni giurisprudenziali. Ciò può incidere negativamente sulla evoluzione della giurisprudenza in funzione del contesto storico – sociale di riferimento.
Senza dire di alcuni casi estremi dove la discussione della causa (c.d. seriale), ma che per le modalità di fatto potrebbe essere diversa dal caso precedente, sconti negativamente il rilievo che il Giudice abbia già deciso e qualche sentenza venga redatta, purtroppo, col sistema del copia-incolla errandosi persino nell’indicazione dei nomi delle Parti.
Le mie scelte processuali, infine, non sono limitate dalla questione del regolamento delle spese secondo i criteri che guidano concretamente i Giudici nell’uso della discrezionalità loro rimessa dall’art. 92 c.p.c. quale risultante dall’intervento della Corte Costituzionale.
Operare diversamente significherebbe limitare la libertà di difesa – che è fatta di domande principali e subordinate – con tutto ciò che di negativo ne consegue per l’etica della professione, per la Parte rappresentata e per la stessa evoluzione del Diritto del Lavoro.
10.- Conclusione. Sul tema di fondo, alla luce del racconto che precede, si può concludere affermando che il ruolo del Giudice del Lavoro e la di Lui funzione -esercitati nel rispetto della legge e dei principi della nostra Costituzione – restano determinanti nella creazione di quel Diritto Vivente che, come abbiamo visto, incide sull’organizzazione e sulla stessa vita dell’Impresa. Così potrà essere anche nel futuro laddove il Diritto Vivente, così come creato dal Giudice del Lavoro nel contesto socio-economico di riferimento, non potrà essere soffocato dalla giustizia robotizzata creata dall’intelligenza artificiale e dagli algoritmi. Al contrario questi dovranno essere posti dal Giudice del Lavoro a base del Diritto Vivente, per disciplinare lo svolgimento del lavoro nell’Impresa del futuro: laddove si affievolisce il concetto di subordinazione come tradizionalmente inteso; laddove i relativi rapporti di lavoro saranno più liquidi, si creeranno nuove forme e modalità di lavoro avanzato, libero e partecipativo della ricchezza prodotta.
[1] Fu Egli – nel campo giuslavoristico e sindacale – come prima ancora furono Barassi, Carnelutti, Messina, con lui, Francesco Santoro Passarelli, Luisa Riva-Sanseverino e, più tardi, Renato Scognamiglio e Luigi Mengoni, un civilista prestato al neonato diritto del lavoro, ma poliedricamente capace di ridefinirne architravi e principi tramite innesti di diritto civile mai orientati al mero formalismo, ma sempre riletti in funzione creativa nella specialità del rapporto.
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