A cura di Tiziano Feriani
Un ente pubblico può legittimamente licenziare un proprio dipendente che ha tentato di avvelenare la compagna. In tal senso si è espressa con la recente sentenza 3 aprile 2024 n. 8728 la Corte di Cassazione, confermando la sentenza della Corte d’Appello di Bologna che – in riforma della pronuncia di primo grado – aveva ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad un dipendente comunale con mansioni di autista di scuolabus. Nel caso di specie, detto lavoratore aveva riportato, in sede penale, una condanna definitiva per il reato a lui ascritto, consistente nell’aver posto in essere atti idonei, in modo non equivoco, a cagionare l’interruzione di gravidanza della convivente. La Corte territoriale, nel dichiarare la legittimità del licenziamento in esame, aveva evidenziato che il grave fatto commesso dal dipendente e posto alla base del provvedimento espulsivo adottato nei suoi confronti – pur essendo stato da lui compiuto al di fuori del rapporto di lavoro e nell’ambito della propria sfera personale – integrava, comunque, gli estremi di una giusta causa di recesso.
Ciò in quanto gli effetti di tale condotta extralavorativa – rilevante, innanzitutto, sotto il profilo penale – si riverberavano anche sul piano disciplinare, stante la sua idoneità a ledere in maniera irreparabile l’indefettibile vincolo fiduciario che rappresenta il fondamento di ogni rapporto di lavoro e, quindi, a non consentire la prosecuzione, neppure in via temporanea, di quest’ultimo.
Innanzi al Supremo Collegio, la difesa del lavoratore ha lamentato l’asserita erroneità della pronuncia d’appello, poiché, a suo dire, la Corte bolognese – nel giungere alle conclusioni sopra illustrate – non avrebbe effettuato la valutazione di tutti gli elementi che connotavano la fattispecie de qua secondo i criteri normativi e contrattuali che avrebbero imposto la considerazione delle caratteristiche oggettive e soggettive della condotta dell’agente. In particolare, è stato rilevato che la Corte avrebbe dovuto tenere conto, sotto il profilo oggettivo, della limitata idoneità lesiva del comportamento del dipendente (asseritamente comprovata dalla circostanza che la sua compagna non aveva, di fatto, riportato gravi danni alla salute), nonché, sotto il profilo soggettivo, della peculiare condizione psicologica in cui egli versava al momento del fatto, che l’aveva indotto ad assumere tratti caratteriali da lui mai manifestati in ambito lavorativo.
A detta della difesa del lavoratore, le summenzionate circostanze, ove opportunamente esaminate e valutate, avrebbero dovuto condurre – se non a scriminare la sua condotta – quantomeno, a mitigarne la gravità, con conseguente illegittimità sotto il profilo della proporzionalità del licenziamento per giusta causa irrogatogli.
Per contro, le argomentazioni difensive prospettate dal dipendente non hanno trovato accoglimento innanzi alla Suprema Corte, la quale ha evidenziato, in via preliminare, che le stesse presentavano evidenti profili di inammissibilità, essendo complessivamente orientate ad un riesame degli apprezzamenti di merito effettuati dalla Corte bolognese, che – in quanto congruamente motivati sotto il profilo logico-giuridico – non potevano essere censurati, né tantomeno rimessi in discussione in sede di legittimità.
Fermo restando quanto sopra, la Corte di Cassazione ha, altresì, affermato che le doglianze avanzate dalla difesa del lavoratore erano, in ogni caso, anche infondate, perché nel caso in esame non vi era stato, da parte della sentenza d’appello, alcuno scostamento dai criteri valutativi cui deve essere improntato il giudizio circa la ricorrenza di una giusta causa di recesso.
Infatti, la Corte territoriale – a differenza del Tribunale – aveva correttamente ritenuto che la condotta extraprofessionale del dipendente comunale, accertata con sentenza passata in giudicato, costituiva giusta causa di licenziamento, stante la sua palese ripercussione sul vincolo fiduciario.
Inoltre, il Supremo Collegio ha precisato che, nel caso in esame, veniva in rilievo anche la natura pubblica del datore di lavoro, dovendo quest’ultimo tenere conto anche delle ricadute che il comportamento posto in essere dal suo dipendente poteva avere sulla propria immagine e nella percezione della popolazione che vi faceva capo. A tale proposito, secondo la Corte di Cassazione, il licenziamento per giusta causa intimato al dipendente era legittimo anche sotto il profilo della proporzionalità, alla luce dell’oggettiva gravità del reato ascritto al lavoratore, dell’indubbio disvalore sociale del medesimo, della situazione di conflitto da lui ingenerata rispetto alle finalità ed agli interessi morali dell’ente comunale, nonché al rigore con cui un’istituzione pubblica è chiamata a valutare l’affidabilità sociale e morale del proprio personale.