
Intervista a Damiana Lesce per Repubblica, 23 Febbraio 2025
Il 12 gennaio 2025 è entrata in vigore la Legge n. 203 del 13 dicembre 2024, comunemente nota come “Collegato Lavoro”. Diverse le novità e tra quelle principali: le dimissioni per fatti concludenti, il periodo di prova nei contratti a termine, il computo dei lavoratori in somministrazione, le conciliazioni telematiche ed i contratti misti.
A distanza di un mese dall’entrata in vigore, i temi di maggior interesse, in ragione delle loro immediate applicazioni pratiche, risultano essere quelli relativi alle dimissioni per fatti concludenti e alla durata del periodo di prova nei contratti a termine.
Le dimissioni per fatti concludenti
In caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro, che può verificare la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l’impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza.
La nuova norma si prefigge lo scopo di contrastare il fenomeno per il quale il lavoratore abbandona volontariamente il posto di lavoro per costringere il datore di lavoro al licenziamento che avrà come effetto, per il datore, il pagamento del ticket e per il lavoratore, il godimento della Naspi. Sul tema specifico è intervenuto “a chiarimenti” l’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la nota 579/2025.
A tutt’oggi permangono tuttavia ancora dei dubbi interpretativi ed applicativi. Il primo riguarda il termine oltre il quale il rapporto si intende risolto per dimissioni: secondo una prima interpretazione, il termine collettivo a cui si fa riferimento è quello al superamento del quale è oggi prevista la facoltà di procedere al licenziamento. Poiché, tuttavia, la legge non lo dice espressamente, secondo altra interpretazione la norma potrebbe riferirsi ad un espresso termine previsto dalla contrattazione collettiva atto a disciplinare le dimissioni di fatto. In altre parole, in assenza di una espressa previsione in tal senso, non si potrebbe ritenere che il termine eventualmente previsto dai contratti collettivi per derogare a quello legale di 15 giorni non possa automaticamente coincidere con quello già previsto al diverso fine di giustificare il licenziamento. Quest’ultima interpretazione appare, all’evidenza, più prudenziale.
Altro tema riguarda l’applicabilità o meno della norma nei casi in cui le dimissioni necessitano ex lege, ai fini della loro efficacia, della convalida: la lavoratrice madre e il lavoratore padre che si dimettono durante i primi tre anni di vita del/della figlio/a devono convalidare le proprie dimissioni presso l’Ispettorato del Lavoro. La legge non fa alcun distinguo espresso, tuttavia, in attesa di chiarimenti, una interpretazione prudenziale è consigliabile.
Ed ancora: ci si è chiesti se, in presenza di una assenza ingiustificata, il datore sia obbligato a seguire la procedura prevista dalla nuova norma oppure possa scegliere tra questa e il licenziamento disciplinare. Anche se un chiarimento sarebbe stato opportuno, vi sono buoni motivi per propendere per la natura facoltativa della nuova procedura.
Sotto diverso profilo, la nuova disposizione sconta il rischio per il datore di rimanere esposto, a tempo indeterminato, all’iniziativa del lavoratore mirata a dimostrare, come previsto dalla norma, l’impossibilità di comunicare i motivi che giustificano l’assenza, ma anche il rischio derivante dall’esito degli accertamenti dell’Ispettorato. A tal proposito, la nota 579/2025 suscita qualche perplessità: se, da un lato, è vero che viene prescritto agli Ispettori di agire con tempestività e di concludere gli accertamenti entro 30 giorni dalla ricezione della comunicazione del datore di lavoro, al contempo, l’oggetto dell’accertamento sembra allargarsi oltre i confini previsti dalla legge, estendendosi non solo al fatto storico dell’assenza dal lavoro ma anche alle ragioni che possono eventualmente aver impedito al lavoratore di comunicarla.
La durata del patto di prova nei contratti a termine
Con il Collegato lavoro è stato introdotto un criterio matematico per il computo del periodo di prova. Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro. In ogni caso, la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi.
Anche tale norma presenta qualche dubbio applicativo: ad esempio, il legislatore non dice nulla per i rapporti a tempo determinato di durata uguale o superiore ai 12 mesi. Vale il primo criterio di calcolo e, quindi, la durata massima del patto di prova è 24 giorni, oppure il secondo e, quindi, anche oltre i 30 giorni? Ed ancora, quale la durata massima per periodo di prova nei contratti sostitutivi con termine non identificabile?
Altra osservazione riguarda la durata massima del periodo di prova in caso di contratti a tempo parziale di tipo verticale, ipotesi nelle quali il calcolo basato sui giorni di calendario sembra poco confacente con i giorni di effettiva prestazione.
Da ultimo, vi è certamente il tema del rinvio alla contrattazione collettiva ed alla sua prevalenza rispetto alla legge in caso di “disposizioni più favorevoli”: non è così pacifico che un termine di durata del patto di prova più breve della legge possa ritenersi sempre e comunque più favorevole. Per ipotesi, potrebbe insorgere un contenzioso nel caso in cui il lavoratore, licenziato per mancato superamento della prova, assumesse che non vi è stata effettiva valutazione della sua prestazione per mancanza di tempo.