A cura di Francesco Cristiano
La controversia da cui trae origine la recente sentenza di legittimità vedeva contrapposti un personaggio politico ed un’autorità di vigilanza.
Quest’ultima aveva convenuto in giudizio il primo, anche ai sensi dell’art. 2043 c.c., per ottenere la sua condanna al risarcimento del danno da diffamazione per avere messo in atto una campagna denigratoria mediante comunicati stampa e messaggi in twitter tesi a ingenerare nell’opinione pubblica il dubbio che l’autorità agisse e avesse agito col fine di difendere gli interessi dei soggetti vigilati, in collusione con taluni operatori del mercato finanziario colpevoli di gravi illeciti.
La responsabilità era effettivamente accertata dai giudici di primo e secondo grado, sicché la parte soccombente ricorreva per cassazione.
Nel decidere sul ricorso, la Suprema Corte – con la sentenza n. 13411 del 16 maggio 2023 – ha evidenziato che il legittimo esercizio del diritto di critica, anche in ambito latamente politico, è sempre condizionato alla correttezza formale dell’esposizione ed alla non eccedenza dai limiti di quanto strettamente necessario per il pubblico interesse. La circostanza che le dichiarazioni lesive siano veicolate tramite un social network non induce, pertanto, ad una diversa considerazione del contenuto lesivo delle dichiarazioni stesse. In particolare, il post in twitter non si sottrae al necessario rispetto della continenza espressiva e non concretizza una manifestazione del pensiero irresponsabile solo perché veicolata tramite il predetto mezzo di comunicazione.
Non è possibile sostenere – argomentano i giudici di legittimità – che nell’attuale contesto sociale l’utilizzo di un social network, e segnatamente di twitter, consentendo di esprimere brevi messaggi di testo, imponga una valutazione dei medesimi meno rigorosa e severa quanto al necessario rispetto dei noti limiti che circondano l’esercizio del diritto di critica. Al contrario, l’uso di una piattaforma come twitter, o altre equivalenti, implica l’osservanza del limite intrinseco del giudizio che si posta in condivisione, il quale, come ogni giudizio, non può andar disgiunto dal contenuto che lo contraddistingue e dalla forma espressiva, soprattutto perché tradotto in messaggio di testo breve, ma incisivo e, per sua natura, assertivo o scarsamente motivato.
Inoltre, secondo la Suprema Corte, non costituisce circostanza esimente il fatto che, attraverso il social network, i messaggi vengono trasmessi privatamente solo a determinati followers: infatti, si tratta pur sempre di messaggi, giudizi e affermazioni rivolti a un numero indiscriminato di persone, sicché in quella indiscriminata cerchia essi sono e rimangono comunque “pubblici” per definizione. Pertanto, enunciando i predetti principi, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso e ha confermato la decisione impugnata.