A cura di Claudio Ponari
La recente sentenza del Tribunale di Roma pubblicata il 4 marzo 2024 n. 2615 interviene nel dibattito inerente alla qualificazione dell’attività degli influencers, offrendo una soluzione interpretativa suggestiva, senza essere, tuttavia, ad opinione di chi scrive, capace di risolvere il dibattito.
La crescita della rilevanza sociale degli influencer è infatti innegabile specie in un Paese come l’Italia, laddove la diffusione dei social è ormai capillare (basti pensare che secondo dati diffusi da Assoinfluencer, associazione di categoria che riunisce gli influencer, l’Italia sarebbe il quarto Paese al mondo per capacità degli influencer di orientare gli acquisti dei consumatori) e pienamente inserita nel tessuto sociale e tale crescita porta con se il ricorso a forme contrattuali atipiche che vedono protagonisti i social e i soggetti che utilizzano tali strumenti come avvenuto nel caso deciso dal Tribunale di Roma.
Volendo provare a generalizzare di solito lo schema contrattuale ricorrente (variamente definito dalle parti, per lo più, come contratto di marketing influencer) prevede un accordo tra un’impresa (che di solito è un’impresa di servizi che funge da intermediario tra la casa produttrice dei prodotti e l’influencer) e l’influencer stesso (di solito un soggetto che gode di un’apprezzabile notorietà ed un rilevante seguito sui social) in funzione del quale il secondo si impegna a realizzare determinati contenuti o a svolgere un’ attività di promozione di prodotti destinati ad una platea (che di regola coincide con i followers del’influencer), in cambio di un corrispettivo (che può essere determinato a contenuto o a forfeit o, che può anche consistere nel riconoscimento di una percentuale sulle vendite realizzate con la partecipazione del prestatore come nel caso deciso dal Tribunale di Roma o, nei casi di minore rilevanza che coinvolgono gli influencer con minore seguito, anche solo con un pagamento in prodotti). In questi casi, di regola, il prestatore viene pagato a mezzo fattura e la previdenza resta a suo carico (gestita per lo più attraverso l’iscrizione alla gestione separata che, com’è noto, non grava sull’impresa committente ed è soggetta ad un’aliquota meno onerosa rispetto alle gestioni principali), quando non è completamente esclusa, come accade nei casi di “prestazioni occasionali” che si collocano al di sotto della soglia dei 5000 euro annuali. A fronte dell’adozione di un siffatto schema negoziale, che viene ricondotto il più delle volte allo schema del contratto d’opera intellettuale (anche perché, di solito, non si rinvengono nell’attività di creazione e pubblicazione di contenuti che connota l’opera dell’influencer gli indici della subordinazione), non sorprende che in collegamento diretto con la crescita di rilevanza socio-economica dei social e nell’assenza di una regolamentazione legislativa che definisca e regolamenti l’attività degli influencer, si sia registrata una crescita di interesse e di iniziativa da parte degli Enti Previdenziali tesa a far valere le pretese imponibili dei suddetti enti.
E’ infatti proprio in questo contesto che si colloca, ad esempio, la decisione del Tribunale di Roma che ha respinto l’opposizione promossa dall’impresa (committente) che si è vista riqualificare come agenzia, per quanto qui di interesse, taluni contratti, definiti di influencer marketing, conclusi tra l’impresa e alcuni soggetti attivi nel mondo dello sport (nel caso specifico si trattava prevalentemente di body builders).
Nel caso in questione il contratto prevedeva l’impegno dell’influencer di promuovere, per conto della committente, “prodotti del brand di proprietà di (una determinata casa produttrice) sulle pagine social media e sui siti web di proprietà dell’influencer, indicando nelle proprie pagine web il codice personalizzato”.
L’accordo in questione prevedeva che “per ogni singolo ordine (di acquisto) direttamente procurato e andato a buon fine, l’influencer avrà diritto di percepire dalla Società un compenso nella misura del 10% (del valore dell’ordine) detratto delle spese di spedizione” e che in aggiunta l’influencer avrebbe avuto diritto “ad un ulteriore compenso determinato in 100€ per ogni articolo/contenuto pubblicato in rete per un massimo di 10 mensili, previa approvazione dell’azienda”.
Ebbene, a fronte di tale regolamentazione, la Fondazione Enasarco ha ritenuto integrati gli elementi propri del contratto di agenzia e, conseguentemente, ha richiesto, a mezzo verbale di accertamento, il versamento della contribuzione obbligatoria al Fondo di Previdenza e al FIRR ed il Giudice ha avallato la pretesa impositiva dell’Ente, condannando l’impresa al pagamento delle relative contribuzioni e versamenti.
Secondo la sentenza, infatti, nella fattispecie ricorrevano una pluralità di indizi, gravi, precisi e concordanti idonei a dimostrare gli elementi della stabilità e continuità tipici dell’agenzia dal momento che:
I) lo scopo del contratto sarebbe stato proprio quello di vendere i prodotti promossi direttamente ai followers dell’influencer “tanto che il follower in sede di acquisto deve inserire il codice sconto personalizzato associato all’influencer”;
II) la presenza di una zona ricavabile dalla comunità dei followers dell’influencer;
III) il vincolo di stabilità provato dalla presenza di estratti conto contabili delle provvigioni ricevute dall’influencer e della sistematica emissione di fatture per una serie indeterminata di affari procurati attraverso l’attività promozionale svolta sui social e sui siti web compensati con la percentuale stabilita in contratto;
IV) la durata del contratto, stipulato a tempo indeterminato.
La sentenza lascia, tuttavia, aperti alcuni interrogativi che riguardano principalmente l’assimilazione tra l’attività di diffusione di taluni contenuti, che integra la sostanza della prestazione a carico dell’influencer e che sembra presentare elementi di maggiore vicinanza con l’attività di propaganda, propria, ad esempio dell’informatore scientifico, piuttosto che con l’impegno dell’agente di prodigarsi stabilmente per la conclusione del contratto.
E’ vero infatti che nel caso deciso dal Tribunale di Roma c’era anche un elemento in più caratterizzante il tipo dell’agenzia e cioè il riconoscimento di un corrispettivo a fronte della conclusione della vendita riferibile al gradimento manifestato dal cliente (sia esso un follower o un utente ingaggiato dall’algoritmo gestito dalla piattaforma informativa) rispetto al content diffuso, ma non sembra che questa circostanza (non così comune) possa essere considerata decisiva per raggiungere una conclusione generale, considerando che di norma, l’attività dell’agente è ben più estesa rispetto a quella svolta dall’influencer occupandosi soltanto il primo di visitare il cliente, illustrare le caratteristiche del prodotto (talvolta anche tecniche), discutere i termini (i.e. le quantità, l’eventuale scontistica, i termini di pagamento etc) e, nei casi di agente con rappresentanza, anche procedere alla formalizzazione del contratto talvolta occupandosi anche della riscossione, laddove l’attività dell’influencer si esaurisce nella realizzazione del contenuto (e, dunque, si sostanzia in un’attività ad esecuzione istantanea, magari ripetuta, e non in una prestazione di durata).
L’attività dell’influencer, per come di solito dedotta in contratto, è infatti più limitata rispetto a quella che ha contraddistinto il caso in esame e sembra rientrare piuttosto nella propaganda piuttosto che nell’agenzia, fermo restando che trarre conclusioni generali dal caso particolare è, comunque, impossibile, dovendo necessariamente verificarsi la specifica regolamentazione contrattuale concordata dalle parti.
Peraltro, l’Enasarco non è l’unico ente gestore della previdenza che ha manifestato interesse verso i contratti conclusi dagli intermediari con gli influencer; risulta infatti che anche l’INPS sia decisamente proattivo nel richiedere alle imprese che contrattualizzano detti soggetti, incaricandoli di realizzare contenuti per conto di società produttrici, il versamento della contribuzione ex ENPALS (notoriamente molto onerosa essendo l’aliquota molto elevata e speciale perché prevista a prescindere dalla qualificazione dell’attività come subordinata o autonoma).
Al riguardo la tesi dell’INPS è la seguente: quando il contratto preveda la realizzazione di contenuti destinati ad essere pubblicizzati sui social (ad esempio Instagram, Tik Tok, Facebook, Twitch, You Tube etc) con finalità promozionali (e, quindi, quando si promuovono specifici prodotti) verso un corrispettivo, quale che sia la modalità di esecuzione di tale attività (autonoma o subordinata), vi sarebbe la competenza assicurativa del Fondo Previdenza Lavoratori Spettacolo (fondo sostitutivo dell’assicurazione generale obbligatoria) con la conseguenza che il committente avrebbe gli obblighi sia informativi che contributivi (2/3 della contribuzione cederebbero a carico del committente/datore di lavoro) conseguenti.
Anche questa assimilazione tuttavia, oltre a confliggere con la precedente operata dal Tribunale di Roma, presenta elementi quantomeno dubbi dal momento che l’assimilazione tra i contenuti realizzati dagli influencers (che sono persone che, avendo raggiunto una certa notorietà, condividono momenti della propria vita) e lo spettacolo che ha una sua definizione legale, intendendosi come tale un prodotto atto a “preservare e/o arricchire l’identità culturale e il patrimonio spirituale della società” (cosi art. 1, lett. c-octies, legge delega 106/2022) appare forzata (i momenti della vita dell’influencer non sono infatti, a mio parere, assimilabili a interpretazioni di un testo letterario o musicale volto ad arricchire il patrimonio culturale della società). Infatti l’attenzione che gli influencers ottengono dai followers deriva principalmente dall’interesse che questi ultimi hanno rispetto alla vita dei primi, intesa come modello cui tendere e nella aspettativa che la casa produttrice del prodotto fonda sulla notorietà dei primi che l’emulazione dei followers possa avere effetti positivi sul prodotto pubblicizzato nel content.
Non soltanto un ulteriore aspetto critico rispetto alle pretese impositive dell’INPS è legato alla necessità di far rientrare l’attività degli influencers nel novero considerato dall’art.3 del D.Lgs C.P.S.a 708/1944 che non menziona ovviamente gli influencers tra i destinatari dell’obbligo di iscrizione al (disciolto e confluito nell’INPS) ENPALS e le eventuali assimilazioni che l’INPS svolge rispetto ad altri soggetti menzionati nell’elenco appare quantomeno discutibile alla luce della specificità dell’attività dell’influencers.
Il tutto senza considerare le obiettive difficoltà a distinguere tra contenuti meramente divulgativi, sicuramente estranei all’obbligo assicurativo, realizzati dagli influencers al fine di incrementare la platea dei propri followers (che potrebbero presentare elementi anche involontariamente pubblicitari – si pensi ai video postati da influencers che mostrino determinate macchine sportive o che indossino riconoscibili capi di abbigliamento e/o gioielli)- e contenuti effettivamente “sponsorizzati” e regolamentati dal Codice del Consumo.
Già se si considera quanto sopra appare evidente la fluidità della situazione che presenta obiettivi elementi di incertezza aggravati dalla molteplicità di schemi negoziali che potrebbero essere adottati dalle parti negoziali con conseguente applicazione di un regime previdenziale che potrebbe essere in seguito contestato, come avvenuto nella fattispecie decisa dal Tribunale di Roma, dagli enti gestori con gravi conseguenze per la committenza.
Al di là, infatti, dell’agenzia o del contratto d’opera intellettuale (che peraltro lo si ricorda se sotto la soglia dei 5000 euro annuali non dà luogo alla costituzione di un rapporto previdenziale ed assicurativo) esiste anche la possibilità che le agenzie che contrattualizzano gli influencers ricorrano allo schema delle collaborazioni riconducibili all’art. 2, comma 1, d.lgs 81/2015 (cd. prestazioni organizzate dal committente) con conseguente rinvio alla disciplina prevista per i lavoratori subordinati, in virtù dei chiarimenti operati dapprima dal Ministero del lavoro con la circolare 3/2016 e successivamente dalla INL con la circolare 7/2020, né può escludersi che venga adoperato lo schema della collaborazione continuativa e coordinata che prevede l’iscrizione alla gestione separata.
In definitiva, la sensazione è che la questione della qualificazione del contratto che abbia ad oggetto la prestazione di attività e/o di specifici contenuti dell’influencer – anche in considerazione dell’ampia e sempre crescente diffusione dei social – e la conseguente esatta determinazione del regime previdenziale di riferimento sia destinata ad acquisire nel tempo una sempre maggiore rilevanza tale da giustificare, quantomeno sotto il profilo della corretta individuazione del regime previdenziale e della certezza del diritto, un adeguato e bilanciato intervento regolatore che elimini l’incertezza senza penalizzare uno degli elementi di maggiore vivacità e democraticità del panorama economico e sociale.