A cura di Paola Balletti
Il Tribunale di Roma, con sentenza 9 febbraio 2024 n. 1646, ha ritenuto legittima la clausola di durata minima garantita inserita in un contratto di apprendistato in base alla quale, nell’ipotesi di dimissioni prive di giusta causa, il lavoratore è tenuto a rimborsare al datore di lavoro i costi della formazione sostenuti dalla società.
In estrema sintesi, la vicenda:
– nel contratto di assunzione era contenuta una clausola in cui veniva pattuito che durante il periodo formativo le parti avrebbero potuto recedere dal contratto unicamente per giusta causa o giustificato motivo, fermo restando, in quest’ultimo caso, il rispetto dei termini di preavviso (c.d. Patto di stabilità e/o Clausola di durata minima garantita). In particolare, veniva espressamente previsto che nel caso di dimissioni prive di giusta causa o giustificato motivo in costanza del suddetto periodo, sarebbe stata trattenuta al lavoratore una somma pari alla retribuzione corrisposta per ogni giornata di formazione erogata fino al momento del recesso (c.d. Penale);
– l’apprendista rassegnava le dimissioni volontarie durante il periodo di durata minima garantita;
– il datore di lavoro citava in giudizio l’ex dipendente per richiedere il rimborso delle somme relative ai giorni di formazione, ritenendo le dimissioni prive di giusta causa o di giustificato motivo;
– il lavoratore sosteneva l’illegittimità della clausola di durata minima garantita del rapporto e la relativa trattenuta dalla stessa prevista. In particolare, lamentava I.- le modalità della contrattazione della suddetta clausola, in assenza della necessaria enunciazione dettagliata delle conseguenze e degli effetti; II.- la sua vessatorietà, che avrebbe comportato la specifica approvazione per iscritto; III.- la sproporzione dell’importo della penale.
– Il Tribunale accoglieva le domande della società.
Con riguardo all’eccezione di vessatorietà della clausola contrattuale, il Giudice di merito ha evidenziato che la stessa aveva lo scopo di predeterminare l’entità del risarcimento del danno a favore del datore di lavoro nell’ipotesi in cui il lavoratore non avesse rispettato il periodo minimo pattuito di durata del rapporto (il Patto di stabilità).
Il Tribunale ha ritenuto che in materia contrattuale le caparre così come le clausole penali, con le quali le parti determinano in via convenzionale anticipata la misura del ristoro economico dovuto all’altra in caso di recesso o inadempimento, non avendo natura vessatoria, non rientrano tra quelle di cui all’art. 1341 cod.civ. e non necessitano, pertanto, di specifica approvazione (Cass. 30 giugno 2021 n. 18550).
Esclusa la vessatorietà di detta clausola, ne è stata, altresì, esclusa l’illegittimità.
Sul punto, ferma la disciplina delle condizioni del contratto di apprendistato fissate dal legislatore, il Tribunale ha rilevato che l’ordinamento non pone alcun limite all’autonomia privata in relazione alla facoltà di recesso da rapporto di lavoro. Nel caso di specie, ad avviso del Giudice, si era in presenza di un Patto di stabilità correlato ad un diritto potestativo disponibile, per cui il datore di lavoro, che lamenta il mancato rispetto del periodo di durata minima del rapporto, è legittimato a richiedere al lavoratore il risarcimento del danno. Ed ancora, sempre ad avviso del Tribunale, “la meritevolezza dell’interesse del datore di lavoro rispetto a siffatta clausola è rinvenibile nel dispendio economico sopportato dalla azienda per la formazione di un proprio dipendente al fine di destinarlo allo svolgimento delle mansioni e fruendo di una formazione dedicata”.
E’ stata infine esclusa l’eccessiva onerosità della penale ivi contenuta, poiché, trattandosi di formazione relativa all’acquisizione di una posizione lavorativa per la quale erano previste specifiche abilitazioni. Nella fattispecie il datore di lavoro non si era sostanzialmente mai potuto avvalere dell’attività lavorativa effettiva del dipendente, che era stato impegnato interamente nella formazione.
Prima ancora della recente sentenza del Tribunale Roma, la giurisprudenza ha ritenuto legittimo che il corrispettivo spettante al lavoratore, come controprestazione dell’impegno di stabilità, possa essere individuato anche nel costo della formazione finanziata dal datore di lavoro (Cass. Sez. Lav. 11 febbraio 1998 n. 1435). Tale corrispettivo è valido, tuttavia, a condizione che il datore abbia sostenuto un reale costo finalizzato alla formazione del lavoratore e che quindi sia interessato «a poter beneficiare per un periodo di tempo minimo ritenuto congruo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore» (Tribunale di Velletri, sentenza 305 del 21 febbraio 2017). A prescindere dal caso specifico sull’apprendistato di cui alla sentenza del Tribunale di Roma, e sempre in tema di patto di stabilità a favore del datore di lavoro, la Suprema Corte ha ritenuto che per bilanciare i reciproci interessi e le posizioni delle parti coinvolte, la corrispettività va valutata alla luce del complesso delle reciproche pattuizioni contrattuali, potendo consistere nella reciprocità dell’impegno di stabilità ovvero in una diversa prestazione a carico del datore di lavoro, quale una obbligazione non monetaria, purché non simbolica e proporzionata al sacrificio assunto dal dipendente (Cass. Sez. Lav. 9 giugno 2017 n.14457).