Permessi ex art. 33 L. n. 104/1994 e congedo straordinario ex art. 42 L. n. 151/2001

Permessi ex art. 33 L. n. 104/1994 e congedo straordinario ex art. 42 L. n. 151/2001

A cura di Anna Maria Corna

L’art. 33 della L. n.  104/1992 prevede il diritto del congiunto (coniuge, convivente di fatto,  parente entro il secondo grado, e, ove  siano deceduti il coniuge e/o i genitori, ovvero siano invalidi o con oltre i 65 anni di età, parenti fino al terzo grado) di persona con grave disabilità (accertata ai sensi dell’art. 3, 3° comma della stessa Legge) di fruire di 3 giorni al mese per la sua assistenza.
I relativi oneri sono posti a carico dell’Ente previdenziale (con anticipazione  dell’indennità da parte del datore di lavoro e contributi figurativi). Il congedo  straordinario consente al congiunto (coniuge, convivente di fatto, o, via, via, se sono mancanti i congiunti più prossimi, prima i genitori, poi uno dei figli, poi un fratello/sorella, fino ad un parente o affine di terzo grado) che sia  convivente di una persona con grave disabilità,  di astenersi dal lavoro  fino a due anni, con diritto a percepire un’indennità pari all’ultima  retribuzione fissa  (con il tetto annuo, ad oggi, di circa  € 49.663,00), oltre i contributi figurativi.
Inizialmente anche per la fruizione dei permessi era previsto il requisito della convivenza, che è venuto meno con la novella introdotta dalla L. n. 53/2000.
Gli istituti in esame, seppure con elementi comuni, come il fine di  assistenza di un disabile e gli oneri a carico dell’Ente previdenziale (essendo le indennità solo anticipate dal datore di lavoro) presentano significative differenze, in quanto l’assenza continuativa dal lavoro per il congedo non incide sulla ordinaria organizzazione del lavoro, mentre in caso di permessi – visto che la programmazione può essere anche in tempi molto brevi rispetto la fruizione – può comportare maggiori problemi organizzativi.
In relazione a ciò le aziende, ove, per vari motivi, ritengano che non sia fatto un corretto uso dei premessi, fanno effettuare delle verifiche,  in genere tramite investigatori di società specializzate (essendo ciò pacificamente ammesso dalla giurisprudenza, non attenendo alla prestazione  lavorativa e potendosi configurare, in caso di abuso, il reato di truffa), all’esito delle quali, nel caso sia accertato l’inadempimento del lavoratore,  viene avviato il procedimento disciplinare che porta quasi sempre ad un licenziamento per giusta causa. La  differenza tra i predetti istituti è sostanziale ai fini della verifica circa la ricorrenza, o meno, di una giusta causa di recesso, in quanto  nel caso di congedo l’assistenza al disabile convivente è continuativa, per cui la Suprema Corte ha costantemente ritenuto che non viene meno il rispetto della ratio della norma laddove colui che fruisce del congedo svolga, durante la giornata, anche limitate  attività di proprio interesse.
Ciò è giustificato dal fatto che,  nonostante l’assistenza debba essere costante e continua, non si può completamente elidere il diritto di una persona a svolgere anche un minimo di attività sociale o, comunque, di curare dei propri interessi:“In tema di congedo straordinario del D.Lgs. n. 151 del 2001, ex art. 42, comma 5, l’assistenza che legittima il beneficio in favore del lavoratore, pur non potendo intendersi esclusiva al punto da impedire a chi la offre di dedicare spazi temporali adeguati alle personali esigenze di vita, deve comunque garantire al familiare disabile in situazione di gravità di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 3, comma 3, un intervento assistenziale di carattere permanente, continuativo e globale” (Cass. sez. Lav. n. 12032/2020; conf. Cass. sez. Lav. n. 29062/2017). Ben diversi, invece,  i principi costantemente affermati dalla  Suprema Corte, nel caso di fruizione dei permessi,  trattandosi di tre giorni al mese,  che, pertanto, devono essere integralmente dedicati all’assistenza, da espletarsi in sostanziale coincidenza con gli  orari di lavoro.
Invero  la Suprema Corte ha costantemente sottolineato  “come il permesso di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, sia riconosciuto al lavoratore in ragione dell’assistenza al disabile e in relazione causale diretta con essa, senza che il dato testuale e la “ratio” della norma ne consentano l’utilizzo in funzione meramente compensativa delle energie impiegate dal dipendente per detta assistenza
Invero, in base alla ratio della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, che attribuisce al “lavoratore dipendente… che assiste persona con handicap in situazione di gravità…” il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa, è   necessario  che l’assenza dal lavoro si  ponga in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile; questa può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purchè nell’interesse del familiare assistito (cfr. Cass. Ord. n. 23891 del 2018)” (Cass.  sez. lav. n. 1394/2020, in motiv.; conf. Cass.  sez. lav.  n. 8310/2019).
In particolare è stato ritenuto che il controllo giudiziale sulla corretta fruizione dei permessi, che va improntato a criteri di giusto rigore, deve attenersi a parametri di rilevazione dell’abuso del diritto incardinati al dato normativo, che sanziona lo svolgimento di attività incompatibili o estranee al dovere di assistenza, prevalenti o significativamente incidenti sull’arco della giornata di astensione dal lavoro, oppure la fruizione dei permessi in funzione soltanto astrattamente compensativa della presunta assistenza prestata” (Cass. sez. lav. – 24/08/2022, n. 25290). Lo svolgimento di altra attività, in occasione della fruizione dei permessi integra, quindi, l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell’Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari” (Cass. sez. lav., n. 17102/2021; Cass. sez. lav. n. 21529/2019; Cass. sez. lav.  n. 25290/2022) e, secondo la prevalente giurisprudenza,  ciò anche nel caso di solo parziale svolgimento di attività incompatibili con l’assistenza (Cass. sez. lav. n. 5574/2016).
I punti di riferimento per la valutazione in concreto, circa la sussistenza, o meno dell’abuso, sono, quindi, da un lato, la giornata lavorativa  e, dall’altro, quanto  tempo di questa sia  stato illegittimamente non destinato alle cure dell’invalido. Tali principi, seppur molto chiari nella giurisprudenza di legittimità, sono, purtroppo, non sempre adeguatamente considerati dai giudici del merito, che a volte  non rilevano la sostanziale differenza che vi è rispetto al congedo, si che anche in caso di permessi escludono l’abuso  in presenza di varie, o, comunque, prelevati attività private del fruitore, assumendo, appunto, un diritto anche a “spazi” per le proprie “esigenze di vita”, che non è rinvenibile nella ratio dell’art. 33 L. n. 104/1992.
Più recentemente, in base all’attuale disciplina  dell’art.  18 L. n. 300/1970, si è posto, peraltro,  il problema dell’applicabilità del 4° o 5° comma di tale norma, laddove lo “sviamento”, rispetto all’attività di assistenza, sia stato molto ridotto. Nelle più recenti sentenze la Suprema Corte ha, infatti, confermato le sentenze di merito, che, in presenza di una molto ridotta (in percentuale  meno del 10 %) diversa attività,  hanno applicato l’art.  18, 5° comma L. n. 300/1970, rilevando che  correttamente la Corte territoriale avevaritenuto sussistenti, nella loro materialità, alcuni dei fatti contestati e giudicato gli stessi rilevanti, in via astratta, sul piano disciplinare, in quanto condotte integranti violazioni di disposizioni contrattuali; tuttavia, in concreto, ha escluso l’idoneità dell’inadempimento a configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo sotto il profilo della proporzionalità tra licenziamento e condotta così come effettivamente realizzata e ha conseguentemente applicato il sistema sanzionatorio della legge n. 300 del 1970, art. 18, comma 5, piuttosto che quello reintegratorio stabilito dal precedente comma 4”, precisando che “nel caso di licenziamento disciplinare intimato per una pluralità di distinti ed autonomi comportamenti, solo alcuni dei quali risultino dimostrati, la “insussistenza del fatto” si configura qualora possa escludersi la realizzazione di un nucleo minimo di condotte che siano astrattamente idonee a giustificare la sanzione espulsiva, o se si realizzi l’ipotesi dei fatti sussistenti ma privi del carattere di illiceità, ferma restando la necessità di operare, in ogni caso, una valutazione di proporzionalità tra la sanzione ed i comportamenti dimostrati, con la conseguenza che, nell’ipotesi di sproporzione tra sanzione e infrazione, va riconosciuta la tutela risarcitoria se la condotta dimostrata non coincida con alcuna delle fattispecie per le quali i contratti collettivi o i codici disciplinari applicabili prevedono una sanzione conservativa, ricadendo la proporzionalità tra le “altre ipotesi” di cui all’art. 18, comma 5, della I. n. 300 del 1970, come modificato dall’art. 1, comma 42, della I. n. 92 del 2012, per le quali è prevista la tutela indennitaria cd. Forte” (Cass. 6796/2022; conf. 16973/2022).
In caso di comportamenti inadempienti di un lavoratore è, quindi, necessario, prima di procedere al recesso,  valutare anche l’effettiva rilevanza dei fatti,  nonché, ove segua un contenzioso, sottolineare i predetti  principi,  onde la verifica in sede giudiziale sia effettuata  in conformità   alla ratio per cui sono concessi i premessi ex art. 33 L. n. 104/1992.

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