Straining e Mobbing: quando le condotte diventano giuridicamente rilevanti secondo la Cassazione

Straining e Mobbing: quando le condotte diventano giuridicamente rilevanti secondo la Cassazione

a cura di Jacopo Moretti ed Elisa Trifirò

Due fenomeni spesso discussi in ambito giuridico sono il mobbing e lo straining, che, pur condividendo alcune caratteristiche, si differenziano per intensità e sistematicità.

Con la sentenza n. 31912 dell’11 dicembre 2024, la Corte di Cassazione ha fatto luce su questi aspetti, chiarendo i confini giuridici tra le due fattispecie e ribadendo gli obblighi a carico del datore di lavoro.

Il caso riguarda una lavoratrice che aveva convenuto in giudizio il proprio datore, per violazione degli obblighi di tutela della salute e sicurezza sul lavoro previsti dagli artt. 2087 e 2103 c.c.. La lavoratrice lamentava condotte lesive, da lei qualificate come mobbing, attribuendone la responsabilità al datore, anche per non averle prevenute e pretendeva il risarcimento dei danni.

In primo e secondo grado, le richieste della lavoratrice venivano respinte. In particolare, la Corte d’Appello di L’Aquila escludeva la configurabilità del mobbing, rilevando l’assenza di una sistematicità e di un disegno persecutorio unitario nelle condotte denunciate. Inoltre, dichiarava inammissibile la domanda della lavoratrice di esaminare i medesimi fatti sotto il profilo più tenue dello straining, inteso come singoli episodi o comportamenti meno sistematici che, pur non costituendo veri e propri atti persecutori, possono generare stress o disagio psichico. La Corte la qualificava come domanda nuova perché non proposta in primo grado.

Ricorrendo in Cassazione, la lavoratrice sosteneva l’erroneità della suddetta decisione per avere escluso la possibilità di considerare lo straining rispetto al mobbing inizialmente dedotto.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, chiarendo che la distinzione tra mobbing e straining ha pertinenza sociologica ma non incide sulla qualificazione giuridica delle condotte. Quel che rileva è la valutazione di qualsiasi comportamento del datore di lavoro, anche non illegittimo in sé, che possa contribuire a creare un ambiente lavorativo stressogeno o dannoso per la salute psicofisica dei dipendenti. Sotto tale profilo, il datore di lavoro ha, ai sensi dell’art. 2087 c.c., un obbligo generale di prevenzione, che comprende l’attenzione verso condotte capaci di generare stress o disagio: «Ciò che conta è il configurarsi di una condotta datoriale illegittima, anche solo a titolo di colpa, idonea a mantenere un ambiente lavorativo stressogeno, fonte di danno per i lavoratori, in violazione dell’art. 2087 c.c. […] includendo anche comportamenti non in sé illegittimi, ma suscettibili di contribuire al disagio o allo stress, aggravandone gli effetti e la gravità

La sentenza offre una lettura più ampia degli obblighi di prevenzione a carico del datore di lavoro, evidenziando la necessità di un’attenzione complessiva all’ambiente lavorativo, anche per fenomeni non sistematici o non intenzionalmente vessatori.

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